sabato 25 febbraio 2012

I Zauberwünsche, ovvero la potente poesia dei desideri piccoli piccoli

@ Bound, live your dream
È passato molto tempo dall'ultima volta in cui mi sono affacciata sulla piazza del blog e me ne rammarico. Ho scritto e riscritto questo articolo molte volte, mentre la vita prendeva a poderose spallate la testarda bolla di quiete in cui mi sforzavo di mantenere la concentrazione necessaria.

La scrittura è un'arte esigente – quale non lo è, d'altra parte? Pretende l'immersione nel caos del reale a caccia di idee, forme, colori e giochi di luce e, dopo la pesca, la clausura in un silenzio fecondo. Là l'emerso informe, che sbatte la coda viva e tenta con i suoi guizzi di sfuggire alla rete della penna, deve decantare all'asciutto e prepararsi per la fase più difficile. Si tratta di un processo che accosterei a quello della “cera persa”, in scultura. 
Una tecnica affascinante inventata nell'età del bronzo: nel metodo 'diretto', più semplice, si sagoma uno stampo di argilla intorno ad un modello di cera e vi si praticano due fori, uno in alto e uno in basso. Il fuoco acceso sotto quest'ultimo fa scolare la cera sciolta dal calore, mentre il bronzo fuso versato da sopra prende il suo posto.


Per liberare la statua finita dalla matrice della sua fantasia, lo scrittore deve farsi lui stesso cera, tuffarsi nella natura della sua materia, avvolgersi nelle sue spire che si fanno cappa di un cosmo primordiale. Là sotto, lui forgia con clangore e scintille feroci che squarciano il buio, finché un gesto elegante e definitivo sfila il mantello con un volo di danza e la creazione è restituita al reale. 
È mancata, questa volta, la grazia di una placenta ovattata e l'apnea si è interrotta: un mio colpo di pinna frustrato e l'ascesa in superficie. Così, poiché non ho molto più di un sacco di vetri levigati da gettare sulla sabbia, è questo grappolo di riflessioni erranti che condividerò sulla stuoia del blog.

Sarà che, quando il processo di scrittura è iniziato, ha nevicato ininterrottamente per cinque giorni e che io, quando nevica, mi perdo. Aborro il freddo, ma amo la neve e la seguo, con sguardo calamitato. 
I fiocchi dondolano a velocità diverse; alcuni saltellano, prendendo direzioni eccentriche; altri scorrono a onde, sollevati dalle creste di vento e precipitano, filo a piombo; e ancora gragnole di aghetti che intrecciano diagonali, come parabole di stelle cadenti.
Se cerchi di coglierne uno, oscilla qualche millimetro più in là, ma un secondo dopo un altro affoga nell'umido del tuo occhio. Quello che catturo sul palmo della mano, peraltro, mi muore in goccia.
Mi basta appannare la quinta scenica della città e mettere a fuoco i batuffoli ghiacciati vorticanti sotto la matassa grigio-lanosa del cielo, che anche i pensieri cominciano a peregrinare. 
La neve getta un lenzuolo bianco che uniforma e appiattisce il mondo, mentre evidenzia con meticolosità sorniona piccolezze altrimenti trascurate. Mi accorgo, per esempio, che le facciate in corsa dietro ai vetri appannati del tram, hanno acquistato, in questi giorni di bufera, sporgenze nuove, insospettate balaustre, cornici appena aggettanti. Un filo discontinuo e appena percettibile, una scia acquosa di idee impalpabili che non posso fare a meno di seguire.

La prima parla del nostro mondo alla rovescia travolto dall'instabilità; in balia delle incognite del futuro, quello singolo e quello cosmico. Anche prima il bombardamento mediatico ci assediava con notizie apocalittiche, ma la novità è che i bocconi di Armagheddon ora ce li troviamo nel piatto. Eravamo seduti entro il guscio protettivo della nostra intimità domestica, certi della sua inviolabilità, poi hanno cominciato a bussare alla porta, infiltrarsi nella nostra quiete e portarci via gli scogli a cui ancoravamo la nostra vita, un pezzo alla volta. 
Cose inusitate succedono mentre la tela del nostro reale si smaglia. É una geometria dell'assurdo quella che ci circonda e ci vogliono nuovi teoremi per decriptarla

Mi vengono in mente gli scenari delle Ombre bianche di Ennio Flaiano. Sceneggiatore di Fellini, sarcastico critico rassegnato del nostro tempo; del 'suo' tempo dovrei dire, ma i racconti che prendono vita dalla sua penna sono tanto attuali oggi e, prevedo, lo saranno sempre di più, da assurgere ad icone archetipiche. I suoi personaggi sono protagonisti e spettatori di azioni o comportamenti surreali, a tratti spietati, in un carosello grottesco. Ogni storia vive in un cronotopo, uno spazio-tempo, suo e l'autore ci butta in sala a film iniziato, senza che si abbia agio di regolare le coordinate ambientali. L'effetto estraniante si fa più intenso, proprio quando il contesto riprende il passo noto di una (apparente) normalità. La voce lucida che allora si leva ha la cadenza greve di una Cassandra che ha perso persino il gusto della frustrazione e si limita a delirare in solitudine. Ne cito solo due. Uno racconta della nonna Armida, una donna felicemente senza fantasia travolta dall'incombenza inconsueta di dover intrattenere i nipotini. Di raccontare favole, non se ne parla, allora si risolve di leggere loro le notizie di cronaca: morti ammazzati, stragi, violenze, incidenti truculenti. Ed è un successo; i piccoli, si sa, a volte nel morboso ci sguazzano.

Il secondo si apre in una notte d'estate quando due amici passeggiano per le strade sonnacchiose di una città mezza vuota. Un furgone sbanda a tutta velocità e inchioda, ne esce un commando di cecchini. Armati di fucili di precisione si appostano dietro ai ripari offerti dall'architettura della piazza e sparano ai passanti; un tiro al piccione, solo più motivante.

Non vi sembri assurdo e trattenete il sollievo di stare ad anni luce dal caos e dalla follia. Quelle favole descrivono la nostra realtà, solo con parole più acuminate, con quadri che non lasciano scampo. A noi invece piacciono gli alibi e le vie di fuga. Piace pensare che le nonne di una volta, quelle del “guarda che chiamo l'uomo nero” per fortuna non ci sono più e tanto basta. E intanto l'uomo nero, spauracchio ammonitore da evocare all'occorrenza, si è trasformato nel plasma da 65'' che campeggia in salotto e racconta le sue favole truculente all'ora di cena.

Di cose inusitate, ne accadono eccome. Siano ragazzi ubriachi di noia e vacuità che pestano a sangue chi, hanno deciso, rappresenta una categoria 'nemica'; sia un comandante pusillanime che monosillaba scuse mentre il suo transatlantico cola a picco. Ci sconvolgono queste notizie del 'mondo al contrario' per lo spazio di un secondo e poi più niente. Pure è spesso un'indignazione feroce quella che ci prende: la frustata di un'ola da stadio che ruggisce in alto la sua cresta d'onda e poi si placa. Si accusa, si condanna, si lincia in un rito che assolve le nostre piccole viltà quotidiane; poi a questa purificazione collettiva segue un silenzio sgomento che cede il passo, in punta di piedi, ad una rassegnata assuefazione.

Mia figlia, che ha 7 anni, dopo discorsi che le offrono un piccolo spaccato di mondo e di certe sue storture, mi chiede: “... E noi, cosa facciamo adesso? Cosa possiamo fare?” Era l'epoca dell'immediato dopo-Concordia, un gioiello di tecnologia, un emblema di lusso e spensieratezza che diventa carcassa mortifera. In quei giorni in cui ogni angolo del globo ha saputo dell'esistenza di una noce di terra chiamata Isola del Giglio, non potevo smettere di pensare che il tema vero fosse in realtà quello dei desideri. “Ci vogliono desideri più piccoli”, ho detto sibillinamente ad Amélie, “dobbiamo imparare ad accontentarci.” 
“Un motoscafo è un desiderio piccolo, vero?” Ha replicato lei, già nella voce il rammarico di dover rinunciare ad un sogno appena accarezzato nell'articolazione di quel vocabolo esotico. Per un bambino enunciazione è epifania, realizzazione: se lo dici, si fa; se lo dici, è un pezzetto più vero, se ne parli, del tuo desiderio, ne agganci un lembo al reale e poi, a tirarne un millimetro al giorno, finisce che prima o poi lo acchiappi tutto e lo imprigioni nel pugno. Ho sorriso della sua ingenuità già pretenziosa e ho pensato che forse è davvero tempo di tornare alla barca a remi, anzi meglio: dobbiamo recuperare un'età della pietra dei desideri.

Abbiamo veramente bisogno di navi ciclopiche che solcano fazzoletti di mare; di macchine ciclopiche che ingorgano strette vie del centro; di telefoni ipertecnologici, in cui la comunicazione vocale è diventata la funzione più insignificante? 
@ DC, Zauberwünsche
I nostri desideri, credo, non sono più a misura d'uomo e finisce che ci sfuggono di mano. Forse il mondo sarebbe meno 'storto' e noi più felici, se ridimensionassimo i nostri bisogni. Farlo per scelta consapevole è sempre meglio che esserci trascinati per coazione, come purtroppo è prevedibile che capiterà.

Poiché la cosa bella dei bambini è che, non solo hanno la fantastica illusione di poter cambiare il mondo, ma spesso escogitano anche il modo per farlo, la soluzione all'impasse dell'erba-voglio me l'ha offerta la stessa Amélie, qualche giorno dopo, allungando la manina verso il mio naso infreddolito e porgendo un oggettino colorato. “Lo sai che è magico?” ha detto, “è uno Zauberwünsch, un desiderio magico: tu lo esprimi e lui si avvera, sai? Si avvera sempre!”

Si tratta di figurine piatte che stanno in un palmo e si fabbricano infilando perline di plastica in una matrice dentata. La composizione, bloccata dagli aghetti, viene poi fusa con un paio di passaggi di ferro da stiro: le singole perline così si saldano in una superficie unica che ha la forma ed i colori più vari. Il procedimento che muta la materia dispersa in un tutt'uno coerente ha un che di prodigioso; niente di più facile quindi che attribuire ai suoi prodotti un potere fatato: specie di lampade di Aladino in versione semplificata, senza la complicazione di geni scorbutici.

L'idea, apparentemente ingenua, ha però una nota arguta. Parte dalla consapevolezza che le bacchette magiche non esistono, che certi portenti li può solo, forse, Babbo Natale e che, insomma, bisogna aiutarsi come si può. Se tali premesse demotiverebbero un adulto, cacciandolo nel disincanto e poi nel cinismo; per un bambino diventano esercizio d'acrobazia fantastica, perché, preso atto dei limiti, arruola le sue astuzie creative per aggirarli. 
È vero che per i desideri, soprattutto quelli impegnativi, ci vuole tempo e a volte non si ha voglia di aspettare, certi poi non si realizzano proprio. 
Le piccole bussole di perline fuse però funzionano eccome, posso affermarlo con certezza perché le ho provate. 
Qual è il trucco? È molto semplice: basta augurarsi qualcosa di possibile, anzi di immediatamente realizzabile, esprimere un desiderio che predice l'ovvio, anticipare quel che già normalmente accadrebbe. 
Che gusto c'è? C'è, appunto, che se ne riscopre il gusto. Ero intirizzita dal freddo e abbattuta dalla stanchezza, ho chiuso gli occhi con il mio esagono magico nel guanto e ho scandito: “Vorrei tanto poter fare una lunga doccia calda, a casa...” 
Un'ondata di consolante anticipazione mi ha invaso il cuore: certo, chi mi impediva di sciogliere il gelo sotto un generoso getto bollente? 
Quel gesto scontato è diventato ad un tratto prezioso guadagno di una transazione magica.
“E io vorrei mangiare la pasta col pomodoro per cena!”
“E io, invece, salire su un tram riscaldato che ci porta a casa...”
“E io...”
Da quel momento i nostri desideri scontati sono fioriti allegramente come crochi che bucano la neve e, chissà perché, la primavera è sembrata più vicina.

1 commento:

  1. giustissimo, rendere desiderabili le cose che si hanno e che si fanno, vuol dire non dare nulla per scontato, e gioire nel cuore per la gratificazione che arriva. Ottimo esercizio, suggerito dalla dolce Amélie è ancora più grandioso. Eccezionali tutte e due, siete una coppia fantastica.

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