domenica 27 novembre 2011

Steve McCurry e il magma nascosto di un vulcano incappucciato di neve

@ Steve McCurry, Wall
È da un po' che voglio dedicare un post a Steve McCurry, uno dei più grandi foto-giornalisti contemporanei. Ha iniziato la sua carriera documentando la guerra sovietica in Afganistan. Era il 1980 e quelle foto gli valsero la medaglia d'oro Robert Capa.  
Così come ogni personalità notevole vanta un aneddoto leggendario che ne battezzi l'esordio, a colorare di pathos la temerarietà ambiziosa della sua testimonianza, contribuiva il suo camuffamento in abiti locali e le arguzie rocambolesche dei rullini cuciti nelle pieghe delle vesti.  
Steve McCurry per me aveva il volto della ragazza afgana ritratta sulla celebre copertina del National Geographic del giugno 1985, che è un po' come immaginare Magritte come un uomo senza volto ma in gessato nero e bombetta o identificare Michelangelo nella fisicità contorta dei Prigioni. A questo si aggiunga che, quando lo scorso giugno ho visitato la Scope Art Fair – sezione illustre di Art Basel; tutto mi aspettavo tranne che di trovarci il Fotografo in carne ed ossa.  
La fiera d'arte basilese è un evento imperdibile non solo per artisti e galleristi, ma per per tutti gli innamorati del genere, oltre che naturalmente per il mondo del collezionismo. D'altra parte Basilea ha una storia d'eccezione per quel che riguarda il rapporto con l'arte. Nel 1967 un referendum popolare decise l'acquisto dell'Arlequin assis di Picasso, la cittadinanza mise mano al portafoglio e investì in cultura. Quando l'artista lo seppe donò al Kunstmuseum altre 4 opere.  
@ Pablo Picasso, Arlequin assis, 1923
Oggi, una volta all'anno, il centro fieristico, capannoni ed edifici sparsi in tutta la città, ospitano più di 300 gallerie d'arte da tutti i continenti e oltre 2500 artisti contemporanei espongono opere del genere più vario: dipinti, sculture, disegni, installazioni, fotografie, video... Scope Art, in particolare, è una vetrina per i capolavori a forte impegno sociale, che sia di denuncia, critica o perfino evasione, non 'scade' mai nell'art pour l'art. Per questo mi piace immergermi nell'energia stimolante dei suoi padiglioni. Si può respirare a pieni polmoni lì dentro, inalare bellezza e genialità, lasciarsi stupire e affascinare dalla grazia arguta di idee nuove, sentire per una volta l'orgoglio di far parte di una razza, quella umana, che non viola, deturpa, distrugge, ma crea, salva, rigenera. È un crogiuolo di speranza, come un mazzo di fiori di campo sbocciati alla primavera, nei loro colori gloriosi bagnati di sole. Passeggiavo in quel mondo incantato d'immagini e lasciavo che i loro polpastrelli mi sfiorassero l'anima, quando due quadri di dimensioni notevoli hanno catalizzato la mia attenzione. Mi sono avvicinata, poi allontanata di nuovo, poi riaccostata. In entrambi i casi i protagonisti sono dei bambini. Nella foto di destra (“Boy between two daggers”) due occhi nocciola, sgranati, spaventati, ti entrano dentro. Il piccolo è come schiacciato dall'ingombrante presenza di due uomini che impugnano le custodie intarsiate di pugnali. Degli adulti non si vedono i volti, non conta chi siano, penso, ma quel che rappresentano. Uno ha una kefiah bianca e rossa drappeggiata sul petto. Mi viene in mente sia un riferimento all'eterna convivenza ostile di israeliani e palestinesi e di chi, strizzato in mezzo, fa le spese di tanta caparbia violenza.  
La foto di sinistra ha un bambino in fuga sullo sfondo di un gioco cromatico fantastico. Più che l'acquerello di ocra e turchese o lo slancio sospeso del piccolo, la mia immaginazione è colpita dalle impronte di mani, rosse. Avrei voluto parlarne con qualcuno, condividere le emozioni, commentare. Mi sono guardata intorno: alla mia sinistra, un po' indietro, c'erano due uomini impegnati in una fitta conversazione. O meglio: il più giovane, alto, si piegava in avanti con sollecitudine un po' untuosa, gli bruciava negli occhi l'ansia di compiacere il vecchio, di riceverne l'approvazione. Quest'ultimo è più distaccato, ha occhi sorridenti che guardano lontano, sembrano entrare dentro il quadro e correre, anche loro, per quei vicoli, impregnati di spezie.  
“Che sia l'artista?” Mi sono chiesta. Carpisco qualche frammento di frase e ne deduco che il Vecchio è in effetti l'autore delle foto, così non posso resistere, ho una domanda che mi brucia sulle labbra e gliela devo porre. Mi avvicino con fare casuale, sfrutto un secondo di pausa nel fitto rosario del suo interlocutore e gli chiedo se quel muro tatuato di rosso sia un ricordo delle principesse Japur.  
@ Wikipedia.org, Sati stone
A Bikaner, c'è un complesso di bastioni del XVI secolo, il forte Junagarth, alla cui entrata una parete, decorata da palmi di mani, reca memoria della pratica del sati: l'immolazione delle principesse vedove sulla pira dello sposo. Il bambino che corre via: un'altra metafora del rifiuto della violenza? Due infanzie che si sottraggono all'insensatezza adulta, che rappresentano metaforicamente il tempo e il luogo della creatività per eccellenza, che è poi dono d'amore, sorgente di riscatto e salvezza...  
Il Vecchio mi ascolta con attenzione, mi dice, con un sorriso, che non conosceva il referente storico di quelle impronte rosse. Commenta che il bello dell'arte è proprio questo: ciascuno ci vede qualcosa di suo, la può interpretare in modo diverso, arricchendola di nuovi contenuti.  
Quando sto per andarmene il gallerista mi invita con un gesto del braccio a “prendere un ricordo” dal tavolo quadrato tappezzato di foto e brochure. Ad attrarre il mio sguardo come una calamita sono due occhi verdi, magnetici, che riconosco in un istante di apnea stupita. Allungo la mano e sollevo il ritratto cartonato della “Afghan girl”. Mi volto di nuovo a guardare quell'uomo piccolo e ghandiano e poi fisso lo sguardo misto di fierezza e paura di Sharbat Gula. Quella bambina, ritratta a Nasir Bagh, un campo di rifugiati in Pakistan, ha un nome solo da una decina d'anni e quasi 20 ce ne mise McCurry a ritrovarla. Nel 2008, il National Geographic ha istituito in suo onore una fondazione che ha lo scopo di educare i giovani afgani. Così il Vecchio altro non è che Steve McCurry, in carne ed ossa! Mi avvicino di nuovo, ma non abbastanza da farmi notare, voglio squadrarmelo in pace.  
È un uomo piccolo, ben piazzato e con i capelli cortissimi bianchi. Ha un volto che ha visto molte primavere ma che le ha vestite tutte con il sorriso. Emana la forza ieratica e malandrina di un monaco buddista, ne ha i gesti pacati e un'umiltà sicura di sé ed ironica, si concede senza sforzo e senza posa alcuna; descrive il suo lavoro a voce bassa, con nonchalance. Immagino che il fatto di aver fissato il mondo nella sua pupilla più nera l'abbia vaccinato al teatrino artificiale della vanità umana. Immagino, con una punta di cameratismo, che abbia praticato arti marziali per anni, perché emana una quiete addestrata, non passiva.  S'interpone uno yankee con stivali texani e camicia bianca studiatamente trasandata, ha un ciuffo ribelle d'artista incompreso. Con due falcate ha raggiunto il Vecchio e gli allunga un biglietto da visita mentre, con poche frasi, si autopromuove con l'efficienza di un jingle pubblicitario.
Si percepisce di nuovo nell'aria una radiazione bramosa, è la fame orgiastica degli squali da fiera: sono ammiratori, adulatori, aspiranti emulatori, che si accalcano, avidi di strappare all'idolo un frammento di luce, di venir benedetti dal suo sguardo, toccati dalla sua arte e quasi, per osmosi, per elezione stigmatica, 'segnati' per sempre. Nell'ansia di “essere o diventare come”, fanno che porsi direttamente “alla pari”, darsi arie da intenditori scaltriti, che anzi addirittura arrivano ad elargire condiscendenza persino al Genio che vorrebbero sostituire.   
Lo yankee indica la foto delle mani e chiede: “E il puntino rosso? L'ha messo poi in un secondo tempo vero?”  
McCurry stringe gli occhi, muove riluttante un paio di passi verso il quadro: “Mmm dove? Quale puntino?”  
L'altro continua, orgoglioso di aver svelato un segreto noto a pochi eletti: “Un colpo di genio: perché è su quello che si regge tutto il quadro!”  
Crassa ignoranza travestita di pomposa presunzione! Penso.  
McCurry smette di stringere gli occhi. Esclama: “Ah. Be'... Per la verità non l'avevo mai notato!” Lo dice con una tale grazia da non far sentire l'idiota un idiota.  
Mi allontano con un sogghigno, tenendo tra le mani il ricordo di quel piccolo Vecchio potente come un vulcano incappucciato di neve.  
Per chi avesse voglia di vedere il mondo attraverso i suoi occhi: questo è il suo magnifico blog.

1 commento:

  1. Grande emozione aver conosciuto una persona così intensa che sa regalare profonde emozioni, l’articolo rende molto bene lo stato d’animo, complimenti.

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