@ Debora Cilli, Stelvio 2012 |
A chi, per primo, sia venuta l'idea
dell'Engadina, non saprei dirlo. Forse a Martin che, nel retro del
suo atelier, ingombro di rotoli di pelle e stoffa, cataste di libri
rilegati e fusti di fogli dalla costola spoglia, messi in pressa,
vagheggiava di una tenda speciale, in cotone: la Spatz-Zelt
(fresca anche sotto il sole cocente!). O forse a Stefan, che arrivava
tardi alle nostre cene portando in casa, incollate al maglione,
lingue di freddo delle serate invernali e, mentre attaccava con foga
i resti del menù, ci raccontava di falò e nottate in sacco a pelo
nei boschi: occhi fissi al cielo trapunto di stelle.
È
da tempo che contemplo l'idea di una vacanza sulle montagne
svizzere ma se si è realizzata solo quest'anno, dopo dieci di vita
sul suolo elvetico, un motivo c'è. O forse più di uno. In primo
luogo ho sempre amato il mare, sebbene sia nata a Torino, a partire
dai 3 anni, abbia goduto di una camera con vista sulle Alpi e ancora
oggi faccia fatica ad adattarmi ad una geografia cittadina che non
presenti, all'orizzonte, la chiostra maestosa di montagne inondate di
sole.
D'estate: mare. “Il sole che scalda
le ossa aiuta ad affrontare meglio i rigori dell'inverno!” E via di
seguito. Il mare non è granché esigente, estremizzando basta
buttare in valigia costume, asciugamano e crema solare, mentre una
tenda in quota suona impegnativa: si tratta di portarsi dietro la
casa... Poi a me in genere piace conoscere tutto in anticipo, per
essere 'preparata', per potermi 'organizzare', per essere pronta ad
ogni evenienza, in una parola: operativa! E mentre mi lambiccavo in
tipologie situazionali a diverse altitudini, con mutevoli premesse
atmosferiche, nonché condizioni umorali variabili, c'era chi, con
pacata concretezza svizzera, raggiungeva Zurigo per procurarsi la
Spazt – lo scorso gennaio, il suo fondatore avrebbe compiuto 100
anni! Hans Behrmann che nel 1931, quando di anni ne aveva 19, cucì
la sua prima tenda scout. E ancora oggi, a 77 anni dalla fondazione
dell'azienda, le tele in cotone sono rigorosamente cucite a mano e
hanno pesanti zip che scorrono con un riconoscibile sferragliare del
cursore sui denti metallici; ma questo l'avrei scoperto solo dopo.
Mentre elencavo vagamente liste
ciclopiche di utensili e suppellettili, alternando genialate
tecnologiche a disarmanti passe-partout
arcaici, Martin, nel suo modo casuale e dinoccolato, senza machismo imponente, ma con fermezza aggraziata e silenziosa, metteva insieme quanto necessario più qualche comodità extra, poi mi tirava gentilmente per le falde delle ali, ehm della giacca, per farmi di volta in volta scendere a terra e prendere coscienza dei suoi (nostri) progressi. Io annuivo, affabile ma distratta da voli pindarici di domande che terrorizzavano la mia confidenza di campeggiatrice, ma a cui non osavo dare sfogo (quanto lontana sarà la toilette dalla piazzola? Ci sarà l'acqua calda? Farà tanto freddo la notte? Avremo un tavolino e delle sedie per mangiare?)
Così è capitato che, quasi senza
accorgermene, ho riempito anch'io borse e scatoloni seguendo i
pensieri incoerenti che, in fuga verso un filo logico, ora
m'ispiravano azioni di buon senso, ora si perdevano in fantasticherie
inutili. La mia tarantella in bilico tra organizzazione e caos ha
infine prodotto una dignitosa quantità di bagagli e provviste,
queste ultime soprattutto, ché per me la consolazione di un pasto
degno di questo nome è imprescindibile e, in quanto tale, causa di
indefesso e preventivo impegno culinario.
Così è successo che, sfidando le più
elementari leggi della fisica e della gravità, siamo riusciti a
stipare tutto nella macchina di Martin e, in una mezza mattina di
fresco quasi autunnale, abbiamo lasciato il quartiere di St. Johann
per imboccare l'autostrada, destinazione
400 Km circa a sud-est di Basel: val Müstair,
poiché meraviglia della zona è un monastero con dipinti carolingi
iscritti nel patrimonio Unesco.
E sono bastati due passi montani ed una
nevicata improvvisa in quota per farci azzerare l'orologio ed entrare
in un nuovo mondo. Certo, un'ascesa in cordata d'auto fino ai 2500
con relativa inversione di pendenza e calata sull'altro versante, poi
l'illusione di un tratto in piano che anticipa la nuova scalata,
sarebbero di per sé bastate a farci resettare il 'programma
città' e riavviare il sistema secondo nuove variabili montane, ma la
misura dello scarto dalla nostra quotidianità, da poco abbandonata,
ce l'hanno, in realtà, fornita prima un cartello stradale e poi
l'affabilità di un'anziana autoctona che ha incrociato il nostro
cammino. Ad affascinarmi al primo colpo è
stato, infatti, il saluto: “Allegra!”, stampato a caratteri
cubitali sul segnale di località e, più tardi, scandito con
l'enfasi adatta da un sorriso mezzo nascosto sotto l'ombrello.
“Allegra!”...?
Già perché nei Grigioni si parla il
romancio, lingua neolatina affine al ladino e al friulano; in
particolare la variante di Müstair
è l'Engadino inferiore. C'è chi l'ha avvicinata al gruppo
'gallo-italico', a me, che non sono linguista, la definizione
è piaciuta perché calza alle fantasticherie che quella cadenza
irresistibile mi ha suscitato. Una parlata decifrabile ed allo stesso
tempo ignota, è assimilabile ad un potpourri
che neghi alla vista i suoi petali più esotici, che diffonda le note
di oli essenziali inafferrabili. Se da un lato prende a prestito
termini di derivazione latina, a volte rielaborandone una versione
deliziosamente storpiata, dall'altro attinge ad un patrimonio non
indoeuropeo, per noi del tutto intraducibile. Da lì quindi ad
immaginarmi il successo che quella lingua buffa (mi perdonino i
parlanti, lo scrivo con incondizionato affetto) avrebbe nei fumetti
di Asterix, laddove al romanesco dei legionari fosse contrapposto un
irresistibile grammelot montanaro dei bellicosi Celti, il passo è
stato breve.
L'idioma adatto, insomma, ad una terra
che è intrisa di movenze fiabesche, soprattutto appena dopo Zernez,
una volta superati i confini del Parco Nazionale
(il più antico d'Europa che proprio ieri, 01. agosto, festeggiava 98
anni!).
Piantare le tende su un declivio
baciato dal sole, la vista circoscritta da un abbraccio di pineta, lo
sfogo a valle costellato di fiori imperlati da un'aureola di api
ronzanti, ha sancito l'inizio dell'avventura. E poco per volta anche
le nuove attività quotidiane hanno finito per assumere una
dimensione fantastica.
Perché certo solo in un mondo da fiaba
possono realizzarsi, senza parere fuori posto e fuori tempo, gesti
semplici e pure perduti, come l'allestimento di un falò.
'Fare il fuoco' è una delle esperienze
più ancestrali e affascinanti che, alla pratica concreta della
raccolta del legno, accosta l'arte della disposizione dei singoli
elementi ed un pizzico di astuzia alpigiana laddove ripropone trucchi
di epoche povere di risorse.
Così ci siamo incamminati nel bosco e
abbiamo scoperto che i fusti degli alberi erano appesantiti da
ventagli secchi, appendici ormai inerti e sarebbe bastato raccogliere
quanto di scarto la natura offriva. Abbiamo, via via, deposto sul
letto d'erba mucchi di rametti e ramicelli, manciate di pigne cadute,
piccoli ceppi; raccolto mazzi di lichene e legato tutto in fascine.
L'entusiasmo del primo successo alla Robinson
Crusoe è stato però offuscato
dalla logistica del trasporto: gli spuntoni mi pizzicavano le braccia
nude ed il fardello mi pesava al fianco. Poi Amélie, orgogliosa
fochista del gruppo, ha disposto con cura entro l'anello di pietre,
il lichene (che brucia a lungo e sostituisce degnamente la carta),
una granagliata di pigne, poi il tepee di rametti, e ha dato inizio
al rito, nutrendo successivamente il mostro rovente con generosi
ciocchi che le lingue sanguigne digerivano con frigolii e scoppietti
di piacere.
Solo in una parabola da tempi andati,
utensili apparentemente arcaici acquistano vitale importanza e
salvano dal cul-de-sac dell'impotenza: come
il pelaverdure che quel nostalgico appassionato di vintage che è
Martin si è portato orgogliosamente dietro e ha poi prestato ai
vicini di tenda disperati, non prima di avermi lanciato un occhiolino
d'intesa. Devo ammettere che i suoi entusiasmi per le eccellenze
delle produzioni industriali europee li ho sempre guardati con
affettuosa ironia e lo stesso sorriso storto avevo di fronte ai suoi
excursus, in cucina a Basel, sull'inventore, Alfred Neweczezal, che
ideò il pelaverdure Rex
nel 1947. Ma mi sono dovuta ricredere: quando un'idea è geniale e
applicabile nella pratica quotidiana, bisogna riconoscerle il merito.
Per quanto molti abbiamo provato ad imitarlo – chiunque abbia un
pelaverdure con la lama che struscia a vuoto, lo sa; il Rex è
l'unico che davvero funzioni per pelare frutta e verdura, un
occhiello laterale è persino studiato per rimuovere le gemme delle
patate; ma anche grattare scaglie di cioccolato o formaggio, da 65
anni continua ad essere prodotto in Svizzera ed è diventato un
classico del design, tanto che campeggia – gioco di parole non
voluto! – in musei e pubblicazioni specialistiche. A me queste
storie affascinano assai, un po' come l'invenzione della ruota, colpi
di genio negletti, che diamo per scontati perché sono ormai entrati
a far parte della nostra vita comune e sono alla portata di tutti ma
ci facilitano, in campi e misure diverse, l'esistenza.
Da ragazzina amavo i voli in alta
quota, si può dire che toccassi terra raramente. Mi piaceva il
distacco dal mondo: lo osservavo da una distanza di sicurezza che gli
impedisse di scalfire il mio empireo. Tutto da quegli spazi siderali
aveva un'armonica bellezza, direi addirittura perfezione, che una
messa a fuoco più ravvicinata, una planata decisa, non avrebbero
potuto che compromettere. Se poi qualcosa stonava, se un'immagine, il
vociare, la cacofonia del reale scalfivano la mia polla di pace, davo
un colpo d'ala e tornavo in quota, lassù dove tutto era una sintesi
sommaria eppure compiuta, una stilizzazione depurata di dettagli.
Da un po' di tempo a questa parte,
invece, mi diletto in brevi picchiate verso il Reale, cabro
all'ultimo e procedo in volo livellato, raso mondo. A volte oso
tuffarmi in mare e mi lascio avvolgere dal suo utero fresco, per poi
proiettare fuori la mia matassa di piume zuppe e tornare in alto. A
volte tocco addirittura terra; in punta di zampa, saltello qua e là,
come sui carboni ardenti e picchietto con il becco curioso gli
oggetti che mi capitano a tiro. Ho imparato ad apprezzare enormemente
le piccole cose apparentemente insignificanti (sì, proprio come il
pelaverdure, la caraffa che mi porta un litro d'acqua in tavola, la
coperta pic-nic) e che invece rappresentano microscopici lussi
d'utilità pratica. Preziose piccolezze che, dai voli in quota,
passavano del tutto inosservate: briciole da formicaio. Ora invece
costituiscono solide mattonelle su cui posso stendere per bene le
zampe palmate e, udite udite, azzardare una passeggiata.
E dunque all'esplorazione della Val
Müstair è ora di
tornare. Come dicevo è così successo che abbiamo progressivamente
azzerato le nostre competenze da civilizzazione (be', pelaverdure
escluso) e abbiamo provato a vestire i panni grezzi ma gioiosamente
inventivi e solidi di creature primitive, in un'atmosfera di
comunione il più possibile simbiotica con la natura. Ogni giorno la
nuova dimensione acquistava maggiore confidenza e il nostro essere
naturale si stiracchiava compiaciuto della sua inusuale libertà
espressiva.
Abbiamo scoperto cespugli folti che
vestivano collane di perle porpora e ne abbiamo sgranato manciate di
lamponi, poi è stata la volta della rugiada dei ribes, color rubino,
che contendevano alle gocce di pioggia lo specchio dell'arcobaleno.
Ci siamo donati a vicenda praline di fragole selvatiche: un'intensa
essenza di gusto, nascosta sotto cappelli di foglie trilobate.
Mentre percorrevamo sentieri che si
snodavano tra radure verde brillante, fitte di felci, o rive di
torrente dalle spume cristalline e sonore, registravamo con ammirata
sorpresa, le corolle di campanule, i tappeti di muschio, i rami
contorti e centenari, lo sfarfallio frenetico di piccole ali sottili
come tulle che in nuvole turchesi, rosso-nere, bianche o castagna
addensavano danze intorno ai nostri piedi e a volte si posavano sulle
nostre dita tese, sulle falde del cappello, sulle fasce dello zaino.
Con i nostri frutti boschivi abbiamo
arricchito colazioni e dessert e dal resto, a celebrazione
dell'ultimo giorno, Martin avrebbe ricavato un vasetto di marmellata.
Alle farfalle Amélie ha offerto un servizio taxi, portandosele in
palmo di mano per lunghi tragitti, ergendo con le dita libere una
barriera frangivento molto apprezzata dai lepidotteri. Della
catalogazione floreale mi sono invece occupata io, collezionando
esemplari unici dei diversi fiori d'alpeggio; il trofeo della stella
alpina, però, mi sono limitata ad imprimerlo sulla pellicola
digitale della mia fotocamera.
Ci sarebbero da citare ancora i
rondinini a scuola di volo che, tondi e soffici, cinguettavano i loro
dubbi dal trave più alto; il millepiedi salvato dal deserto della
pietraia e deposto tra i fili d'erba o le marmotte fischianti
l'allarme, mentre una loro compagna allungava la morbida pelliccia
bruna al sole.
Certo, questo quadro, apparentemente
bucolico, non deve trarre in inganno. Paradiso senza tempo, sì, ma
non c'è poesia senza lusinga di decifrazione, sfida all'impegno,
invito al coinvolgimento. È arrivato quindi anche per noi il momento
in cui ci è stato chiesto di mettere alla prova i nostri limiti,
testare le paure per fugarle o domarle. È un passaggio obbligato che
non si cerca e non si prepara a tavolino, accade, ogniqualvolta la
natura, pardon: la Natura, sia chiamata in causa. E noi non solo
l'abbiamo evocata ma siamo, per così dire, andati direttamente a
casa sua.
L'episodio più eclatante che mi piace
condividere si riassume in una parola sola: Stelvio. Il versante dei
Grigioni è messo in comunicazione con l'alta Valtellina dal passo
dell'Umbrail. Dopo una gimcana di avvicinamento in bus abbiamo
iniziato l'ascesa della punta del Cotschen a 3.000 m circa s.l.m. La
maggior parte delle guide tecniche la descrivono come una 'piacevole
passeggiata alpina', quindi l'abbiamo affrontata con leggerezza, io
armata di macchina fotografica e cartoccio per l'erbario, Amélie con
un cono stracciatella (preventivo incameramento di energia), Martin
perso a leggere le tavole esplicative che rievocavano la guerra del
1915-'18 quando il fronte dello Stelvio rappresentò un aspro campo
di battaglia italo-austriaco.
Il sentiero si snoda piacevolmente tra
mirti, cardi, campanule, margherite, nontiscordardimé, rododendri e,
per un breve tratto, anche genziane. Arbusti sempreverdi mimetizzano
i resti delle trincee ed alloggiamenti della Grande Guerra ed i raggi
di sole fanno brillare le corolle di piccoli fiori gialli
scapigliati.
Ho imparato qui che ogni svolta, che
sembra l'ultima, nasconde in realtà un'ulteriore lingua di sentiero
che cambia spesso forma, che si dipana più ripido, più aspro. Al
prato morbido come un vello di pecora arricciato, è succeduta,
infatti, una pietraia lunare, il cui angolo di pendenza si è
drasticamente inclinato verso valle. Un profilo croccante di rocce
taglia la nostra visuale fino all'orizzonte solcato da vele di nuvole
gonfie. C'è da trattenere il fiato ad ogni scroscio di sassi che i
nostri passi fanno sgranare giù. Il cammino procede con guardingo
equilibrismo sulla cicatrice di sentiero ghiaioso appena abbozzata
sulla parete. Eppure laddove la ferita aperta del passaggio incontra
il turchese, m'illudo sia la fine della prova, che si sveli il premio
della discesa, che tornino i ciuffi verdi e con loro, i mazzi
fioriti. La vista che si apre a ventaglio alla nostra destra e,
quando abbiamo il coraggio di voltarci, alle nostre spalle, offre un
allettamento fedifrago che annulla la breve consolazione in un
rigurgito di nausea da vertigine.
Martin mi fa un cenno che invita a
precederli di qualche passo per esplorare quel che nasconda la
prossima curva e decidere se sia il caso di proseguire. Avanzo quasi
aderendo alla parete alla mia sinistra, per quanto lo scricchiolio di
pietre sotto le mie mani aperte ed il fianco mi dia una spiacevole
impressione di sabbie mobili. Dopo l'ennesimo arco del sentiero che
mi fa, ancora una volta, sperare in un sospiro di sollievo, scorgo un
tratturo contorto che s'inerpica a strapiombo, senza più compromessi
ed illusioni, e poi scompare contro una dentatura da squalo di pareti
verticali che sono, questa volta sì, la quinta della cima.
Mi giro ad occhi chiusi, poi inspiro a
fondo e, mentre guardo Amélie e Martin in attesa, mi passo
inequivocabilmente il taglio della mano destra sotto il collo:
finito. Si torna indietro.
Non lo sapevo e non l'avrei detto, ma
la parte difficile sarebbe incominciata allora.
Il sole a picco sulle creste
incombenti, il crepitio pietroso e la debolezza dei muscoli nelle
gambe ora incerte contribuiscono al fiorire di fantasie lugubri.
Vertiginose altezze e creste di tsunami popolano da tempo i miei
incubi ricorrenti, io ci tremo in cima, in equilibrio precario,
mentre il mondo di sotto oscilla e ondeggia. Ora che i laghi oscuri
dell'inconscio hanno rotto le dighe e sono liberi di travolgere la
valle della coscienza e tra reale e fantastico, tra luce e notte, non
ci sono più confini, sento che le regole razionali, che tengono le
mie suole carrarmato saldamente a terra, sono in pericolo di
sovvertimento, alla mercé delle ansie più profonde e tetre.
Mentre gli altri avanzavano lentamente
verso valle, io mi sono accasciata dov'ero cercando di dominare la
marea cieca che rischiava di annegare ogni residuo buon senso.
Ricacciare indietro le ombre dell'incubo richiedeva uno sforzo
estenuante a cui si aggiungeva la fatica di decifrare la superficie
che avevo sotto i piedi, perché nel capogiro non distinguevo più
quali ciottoli scivolassero a valle, quali degradassero dal monte e
quali offrissero un piano di calpestio relativamente orizzontale. Mi
danzavano davanti agli occhi chini, come leggere ondulne di mare
appena mosso, ad accrescere la mia insicurezza e la mia risoluzione
illogica all'immobilità.
La prima decisione è stata quella di
restituirmi la sobrietà a schiaffi, la seconda di aggrapparmi ad una
cantilena ricorrente, alla scansione puntuale delle sue sillabe, per
non pensare a null'altro.
Ho così cominciato a intonare 'bi-e-à,
bi-e: ba-bé, bi-e-i: babebì, bi-e-ò: babebibò, bi-e-ù: bu –
babebibòbu.' che si faceva più acuta nei momenti in cui lo
sghignazzo della paura aveva la meglio. È stato un ritorno infinito,
con progressi millimetrici e frequenti soste, sguardi lanciati svelti
davanti a me per assicurarmi che gli altri stessero bene (loro, per
la verità e per fortuna, procedevano serenamente, Amélie anzi mi
urlava a tratti di non cantare “ché ti distrai!”) e occhiate
furtive che, fuori dal mio controllo, guizzavano, con un brivido, a
valle.
Superato il pericolo, la paura mi si è
staccata di dosso come un mantello pesante di fango seccato. L'ho
abbandonata là, sul ciglio pietroso, che rincontrerò, forse, nei
miei sogni.
Quella notte lo spettacolo è stato
all'altezza degli scenari che, nel delirio dell'alta quota, mi
promettevo per farmi coraggio. La scodella di cielo, incorniciata
dalle cime dei pini, aveva acceso le sue stelle più fulgide e
ammiccava con luccichii che eran sorrisi.
Scivolare sotto il piumone caldo e
godere il contrasto con il fresco che, dalle pareti di tela, lambiva
il viso, mi ha strappato un sospiro, anticipo di sonno.
La settimana è poi trascorsa: ogni
giorno uno spicchio di cielo nuovo sulla testa e un sentiero ignoto
sotto i piedi. Ci hanno sorpresi acquazzoni biblici, che abbiamo
sfidato e a volte vinto, altre hanno vinto loro e ci siamo ridotti
sotto la piramide della tenda a guardarci le V dei piedi stesi fuori,
in attesa. Abbiamo cotto prelibatezze su un fornello che avrebbe
fatto invidia al colibrì-giradischi dei Flintstones. Abbiamo
adempiuto piccoli riti tutti nuovi e che, così, non rivivremo più:
il pane ritirato caldo al mattino, nel cartoccio anni '50; la
corriera con il suo barrito nasale da elefante braccato; i panini al
cetriolo (fresco, con sale, olio ed erbette) che Amélie ha scoperto
di amare; i picnic in pendenza, in mezzo ai fiori.
Sulla via del ritorno pensavo
all'alternanza di accoglienza e rifiuto che la montagna ha suscitato
in me, alla spietatezza leale con cui si è adoperata a forgiarmi un
po'. E già sento una piacevole dipendenza dalle sue sfide esigenti,
perché la ricchezza della ricompensa non sta nella vista che ti si
squaderna davanti sulla cima, bensì in tutto quello che hai passato
per arrivarci (e quando hai 'fallito' è lo stesso). E per quanto sia
duro e costi tenacia e volontà di ferro, hai una dannata voglia di
rifarlo, perché quella lotta contro se stessi non è altro che il
senso della vita stessa.
Ho imparato anche un'altra cosa: che
mia figlia, forse, preferisce il mare.
“Mamma? Sai, io non sono tanto per la
natura... Sono più per... casa.”
Ps.: Ieri, primo agosto, oltre alla
festa nazionale svizzera, ho celebrato un fatto privatissimo: questo
blog, a cavallo tra la notte e l'alba, ha attraversato il giro di boa
dell'anno. Grazie ancora a chi lo sfoglia, lo legge, lascia un segno
del suo passaggio. Ne sono felice, anche perché, per coincidenza,
proprio ai festeggiamenti basilesi era dedicato il primissimo
articolo. Zum Wohl!
Questa avventura sullo Stelvio l'ho sentita raccontare dai protagonisti personalmente e già in quel momento ho provato un senso di angoscia, ora leggere la dovizia di particolari mi fa venire i brividi e di una cosa sono sicura: non mi arrampicherò mai su un percorso così. Quindi complimenti a chi è stato così temerario e soprattutto a che ha saouto mettere per iscritto queste emozioni. Tutto il resto è pura poesia. Auguri per il 1° compleanno che sia solo l'inizio di tanti anni di soddisfazioni. LuAip1951.
RispondiEliminagrazie Lu! :-)
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