sabato 10 settembre 2011

Figuren Theater Festival Basel, ovvero: due settimane di ordinaria straordinarietà

Dal 31.08. al 12.09. una carovana di artisti provenienti da Belgio, Germania, Svizzera, Francia, Italia, Slovenia, Turchia e India si è insediata in città ad arricchire il già variegato florilegio culturale basilese. Si tratta dei protagonisti del “Figuren Theater Festival Basel”, un evento che mette insieme arti figurative, plastiche e sceniche.
Dopo un inizio in sordina nel 1995, nella prospettiva più limitata di “Festival delle Marionette di Basilea”, si è guadagnato una reputazione internazionale di tutto rispetto. Tanto più che la natura della città, crogiolo multilingue alla frontiera con Francia e Germania, asseconda l'aspirazione poli-culturale dell'occasione. Otto, tra piazze, teatri e parchi coinvolti ad ospitare le 'scene'. S'intreccia con il festival culturale della gioventù, che si è aperto mercoledì 31 agosto, quindi una parte sostanziosa del programma si rivolge ad un pubblico giovane.
Leitmotiv dell'edizione di quest'anno è “l'uomo e la macchina”: ci sono i robot, i giochi digitali, i pupazzi meccanici, ma anche le classiche marionette e le maschere teatrali. È chiaro quindi che le chiavi di lettura siano varie. Cito solo due estremi: il game design “Tête à Pied” di Livio Lunin e Sarah Celebioglu, e “Le Guarattelle di Pulcinella” di Gianluca di Matteo.
@ "Tete à Pied" di Livio Lunin e Sarah Celebioglu
La prima è un'installazione interattiva in cui il visitatore, tirando alternativamente delle grosse maniglie, può manovrare le gambe di un gigante tormentato da pene d'amore, il quale, nella sua corsa verso la donna amata, calpesta ridenti micro-villaggi.
@ "Le Guarattelle di Pulcinella" di Gianluca Di Matteo
Il secondo porta in scena i burattini della tradizione napoletana, in particolare le imprese tragicomiche di Pulcinella. Uno spettacolo che mi ha incantata per diverse ragioni: bello il suo essere teatro di strada, che impreziosisce il pulsare metropolitano che gli gravita intorno e da quello è arricchito (così, che qualche passante distratto si ritrovi ad attraversare a passi affrettati e vergognosi la scena, non disturba, ma fa sorridere).
@ Debora Cilli, Theaterplatz Basel 09.09.11
Bellissimi i burattini, disegnati, scolpiti e vestiti dall'artista, che dimostra anche una manualità straordinaria nell'articolarne le frenetiche acrobazie. Ascoltare poi la lingua patria, mescolata ai frizzi del napoletano, che è il sangue della nostra migliore comicità, risveglia nostalgie antiche.

Nell'ambito degli automi, invece, una sfaccettatura particolare al tema comune riguarda l'assunto che l'uomo crei pròtesi tecnologiche, volte a potenziare il suo controllo sul reale, che però, contrariamente alle aspettative, finiscono per isterilire la sua libertà d'azione, fino a soggiogarlo.
Niente di nuovo sotto il sole (o sul palco), si dirà. Certo, ne parlava, per citarne uno, Charlie Chaplin in Tempi Moderni.
Da qualche migliaio di anni l'uomo s'interroga: domande filosofiche universali e altre contingenti ad un'epoca e specifiche di un dato luogo, che criticano o investigano le tappe dell'evoluzione. Che ricorrano quindi temi già noti, è non solo inevitabile, ma anche stimolante, poiché la molteplicità delle risposte possibili, soprattutto in virtù dei tempi che cambiano, apre ogni volta scenari nuovi.
Questa è l'impressione che ho avuto assistendo a “Ein König lauscht”, un'opera scritta da Nebojša Pop Tasić e Peter Kus, di Ljubljana (Slovenia) e che rivisita, in versione teatrale, un racconto breve di Italo Calvino: “Il Re in Ascolto”.
@ "Ein Koenig lauscht" di Nebojsa Pop Tasic e Peter Kus
Quest'ultimo faceva parte di una raccolta, purtroppo interrotta, di storie dedicate ai cinque sensi e fu pubblicato da Garzanti nel 1986. Si voleva là mettere in luce criticamente il graduale distacco dell'uomo contemporaneo dalla percezione sensibile, come spiegava bene il filosofo Remo Bodei in un'intervista del 1991. Mi permetto un excursus per citarne brevemente un estratto, poiché ne vale la pena : “Proust ha detto una cosa bellissima, quando sosteneva che noi in un certo modo 'sottoviviamo' invece di sopravvivere o sottoutilizziamo i nostri sensi. [...] Uno dei compiti, io credo, del nostro modo di stare nel mondo, sarebbe di aprire più gli occhi, le orecchie, quasi tutti i pori del corpo e sostanzialmente avere un'esistenza più ricca, probabilmente più sensata - nel doppio significato del termine - in quanto ci rendiamo conto di più cose, esercitando questi sensi, soprattutto quelli che nella nostra tradizione sono stati più trascurati. Perché noi abbiamo sempre privilegiato la vista o l'udito, per i motivi che eventualmente dirò, e abbiamo trascurato, perché troppo soggettivi o troppo imprecisi, i sensi come il tatto, l'olfatto o il gusto.”
Nella storia originale, un re che teme di essere spodestato, ascolta i rumori del palazzo, come un enorme orecchio immobile alla mercé di suoni, colpi, frasi spezzate, monconi di discorsi. In risposta a quelli declama la sua secca, dura, cinica filosofia della regalità. Il testo fu musicato da Luciano Berio, perciò non stupisce che la compagnia slovena abbia scelto “Il Re in Ascolto” come base per una pièce surreale in cui al monologo di Calvino si sostituisce un mix di singulti cacofonici e sinfonie sognanti, il clangore di ottoni, il rimbombo cupo delle percussioni e la grazia sospesa di una pioggia di perle sullo xilofono.
In questa rivisitazione, inoltre, al re è sovrapposta la macchina – ed ecco che torniamo al tema portante del festival. I due si identificano, e il prodotto è un essere composito in cui, su un'ossatura fragile e d'equilibrio incerto, si giustappongono strumenti musicali eterogenei, alcuni 'canonici', altri assemblati, come in un collage di frammenti scomposti, sopravvissuti ad una polverizzazione atomica. Non a caso questa compagnia è fatta di artisti che uniscono alla destrezza poetica dei burattinai la sapienza manuale di costruttori di strumenti musicali, così che il loro è un teatro dalla definizione ben precisa: Klangtheater, il teatro del suono (non necessariamente in senso eufonico, anzi spesso origina da materiale di riciclo, quotidiano, anonimo). Così, i mormorii che, in Calvino, il re origliava, qui nascono dal suo stesso petto, sono voce delle sue viscere. Là egli era un tutt'uno con la sua carica ed autorità, essere compatto e necessariamente immobile, congelato nella mansione di re, pietrificato con i suoi attributi (“non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra?”). Qui, invece, è un patchwork di macchine sonore e i suoi stessi stivali (“Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora”) prendono vita e si lanciano in una giga indiavolata che ha tutto il rude romanticismo polveroso dei cow-boys.
Come là, anche qua, è una voce di donna a portare un po' di speranza: un manichino dagli occhi sgranati e sopracciglia tracciate da cannucce, che ricorda sguardi allampanati da Arancia Meccanica.
@ "Ein Koenig lauscht" di Nebojsa Pop Tasic e Peter Kus
A me sembra che, qui, abbiano provato a dare, al tema della rassegna, un'interpretazione ironica, ammiccante, persino birichina. Ecco come la vedo io: si parte dalla premessa che l'uomo sia stritolato dalle macchine e si scopre che, a soccombere, non è però lui. Anzi, l'alienazione che producono, si ritorce contro queste ultime. Gli apparecchi tecno-robotici, per loro stessa natura, incorrono nel rischio del freeze, del crash, del loop: i sistemi si bloccano, collassano in spirali di comandi iterati all'infinito... A noi, invece, ci salva la creatività.
Di fronte all'efficienza dispotica ed auto-referenziale delle macchine, che tradisce la loro stolida fissità, l'uomo si pone come guitto, solo apparentemente spensierato. Così trasforma la sua iniziale impotenza disperante in risorsa e risponde all'iper-tecnologismo con giocosità bambina; la stessa ingenua baldanza che avrebbe un cucciolo di orango che esplora un robot messo a far le veci della madre biologica. Il primate-uomo riscopre, proprio nello scherzo banale, nel trucco primordiale, la profondità del suo essere animale di creazione fantastica e, per questo, demiurgo onnipotente. Perciò non si lascia estraniare dalla macchina, ma la coinvolge nel gioco, nel vortice della danza buffonesca. Che è quello che fanno i tre attori/burattinai/musicisti sul palco con il Re-Macchina.
Mi viene in mente, per confronto, un'opera della cosiddetta 'poesia digitale' che data agli anni '90: Ascii Forkbomb di Jaromil. L'artista si beffa dello strumento informatico provocandone l'auto-distruzione attraverso un 'virus' creativo: una strofa minima fatta di 13 caratteri che, una volta inseriti nei comandi di un sistema Unix, e premuto Enter, determina il collasso dell'apparecchio entro pochi secondi. Quella successione, apparentemente innocua, di segni ordina, in realtà, al computer di fare multiple copie di se stesso, suscitando una catena di reazioni che finiscono per esaurire le risorse del sistema.
Jean Tinguely della freddezza delle macchine, invece, se ne infischiava. Questo penso quando, attraversando la Theaterplatz di Basilea, mi volto a guardare la sua celebre Fasnachts-Brunnen, la “fontana del carnevale”. Costruita tra il 1975 ed il '77, è composta di 10 sculture meccaniche affondate, di qualche cm, in un grosso bacino d'acqua. Visto che l'opera d'arte sorse al posto di quello che era il palco dell'antico teatro cittadino, fu possibile a Tinguely, incastonare la base delle sue macchine entro i binari dell'allestimento scenico (visibili sott'acqua) e, attraverso un sistema di corrente a bassa tensione, mettere in moto le sculture. Danzano nella luce della sera sventagliando gloriosi spruzzi d'acqua tutt'intorno, come scheletrici elefanti di metallo, o ragni dalle zampe ipertrofiche che tacchettano in fuga da un quadro di Dalì. Penso che lui, nella loro ripetitività meccanica ci vedesse la poesia del movimento ritmico, una sequenza di scatti armonici che, nel cul de sac del gesto interrotto, svelano una grazia che mima con tenera goffaggine il carezzare, il titillare umani. Come dicevo all'inizio: diverse risposte immaginative a problematiche ricorrenti.
Sulla via del ritorno dal teatro, ci troviamo a dribblare le gocce di pioggia con la bici. Cadono cadenzate, mentre sfrecciamo lungo viali dagli alberi carichi di foglie già secche. Il cielo grigio compatto, un lampo, l'aria calda, uniforme. Le conto ad alta voce e comincia la sfida: “1... 2... 3...” “Anch'io 1!” urla Amélie dalla sua bici-traino “...4 ...5 ...6 ...7 – nell'occhio!” “2... 5... 8... 32!” Si vanta lei... (32?!).
Vorrei una coppa d'autunno, per favore, malaga, nocciola e uva sultanina, poi una crema di cioccolato nero di marroni a nappare il tutto. Foglie rosse, castano e oro per decorare e una nostalgia di scirocco, che lasci solo un retrogusto d'estate.

1 commento:

  1. bisogna avere una grande cultura per capire le sfumature di questo spettacolo. Con la tua narrazione hai reso partecipe anche me di cose che non sapevo, grazie e complimenti. LuAip1951

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