mercoledì 24 agosto 2011

Los Kunos, Acrobazie di una notte di fine estate


@ Marc Chagall, Circus
Basilea è, per me, ma so di non essere la sola, una città magica.
Le casette basse e spanciate del centro storico medievale sembrano tagliate nel marzapane, quel lucido pongo dagli uniformi colori pastello, con cui modellano i fruttini mignon, nature morte della pasticceria, che piacciono tanto a mia nonna.
Quando c'è la Herbstmesse, la Fiera d'Autunno, e a Barfüsserplatz (la Piazza degli Scalzi), o a Münsterplatz (la Piazza della Cattedrale) mettono la ruota panoramica, la timida e goffa bellezza basilese si sfoglia ad ogni dondolio d'ascesa delle cabine vetrate.
Sarà che mi richiamano alla mente le illustrazioni delle favole nordiche che mi facevano sognare da bambina, ma per me le corolle di case bianche, crema, turchese, lilla, con le ante di legno colorate alle finestre, i dipinti antichi sulle facciate, le scale ripide, ammassate intorno a piazze di sampietrini con fontane di marmo bianco in cui zampilla un'acqua di ghiacciaio, ecco per me emanano un'aura fiabesca.
Per questo non stupisce che, in una città così, qualche bella sorpresa inaspettata si manifesti a distrarre dalla quotidianità. Può succedere, per esempio, che si passeggi lungo il sentiero di un parco ben noto, tra il Reno e il quartiere St. Johann, mentre il caldo tardoestivo lascia il posto ad una piacevole brezza serale e che si stupisca alla vista di un profilo che interrompe la grazia assonnata delle collinette e del loro parrucchino d'alberi. Un fungo blu! Anzi no: un tendone da circo, blu!
Capita così che si decida di deviare il cammino per andare a curiosare, che si legga il manifesto e si scopra che il prossimo spettacolo sarà mercoledì 17 agosto (“Oggi?!” ho pensato 'allora') alle ore 17 (“Ora?!” ho pensato 'allora'). E così, mentre Amélie già saltellava eccitata, ho parcheggiato la bici e mi sono avvicinata alla cassa. In quel momento esce il capocomico e annuncia l'entrata in scena, io rovisto nel portamonete e nel 'portabanconote' ma niente. Non ci arrivo, i soldi non bastano. Riesco però a far entrare Amélie così chiedo un biglietto solo e avviso la bambina che l'avrei aspettata fuori. La ragazza della biglietteria lancia un'occhiata al capocomico e con la mimica facciale lo prega di far entrare anche me: “la bambina da sola, poverina...” E lui, con un risoluto cenno del capo mi indica l'accesso alla tenda. “Sì, ma dopo vado a prelevare e vi porto i soldi,” assicuro. Loro sorridono e prendiamo posto.
@ Los Kunos - www.kunos.ch
Lo spettacolo si chiama Los Kunos: “un circo di famiglia sul palco e nella vita vera” precisa la brochure. Mamma, Papà, Loulou (12), Mademoiselle Lala (8) e i cani Milord s. von den Hohenzotteln e Bongo Wolfgang von Castlehill. Ispirandosi alla poesia malinconica dei dipinti circensi di Picasso e a “La Strada” di Fellini, i Kunos portano gli spettatori indietro nel tempo, ad un'epoca in cui le famiglie del Circo si spostavano di villaggio in villaggio. La tenda diventa una cupola di cielo, le sedie sono poggiate sull'erba e ci si può togliere le scarpe per sentirne il solletico sotto le piante dei piedi; le lampadine colorate che occhieggiano sul palco, sono una collana di stelle. Una stirpe di artisti veri. Prima della loro straordinaria abilità d'acrobati e del talento di musicisti (che sanno suonare non solo gli strumenti 'canonici' ma qualsiasi cosa gli capiti a tiro e il risultato è da pelle d'oca), mi colpisce l'affiatamento, l'amore reciproco e la passione per il loro lavoro creativo, che gli scorre tumultuosa nelle vene. Mi piacciono gli sguardi di motteggio e d'intesa dei ragazzini ai genitori, i sorrisi limpidi e orgogliosi di questi ultimi a coronare la destrezza dei piccoli. La fatica, l'esercizio millimetrico, ma anche il divertimento, la gaiezza, il senso di libertà che deve provare chi sa far volare il proprio corpo in mille acrobazie aeree.
Alla fine abbiamo comprato un naso rosso di spugna e, come noi, tanti altri bambini che hanno poi invaso il parco come piccoli clown.
Sabato 20 agosto ero di nuovo lì, questa volta senza figlia, per lo spettacolo serale destinato ai 'grandi' ed è questo che vorrei descrivere un po' nel dettaglio, quindi avviso che, nel caso qualcuno sia intenzionato ad andarlo a vedere, questo articolo rischia di rovinargli la sorpresa.
Au Vieux Clown è la storia di passaggio del testimone circense, di investitura artistica, di formazione e amicizia. Il vecchio clown identifica Morelli, uno dei due protagonisti, ma è anche il nome del bistrot sgangherato su cui l'artista al tramonto ha ripiegato.
La scena è occupata da un tavolo e tre sedie. Alle estremità stanno un bancone da bar e una postazione musicale, entrambi diventeranno 'pozzi di San Patrizio' da cui si estraggono oggetti, strumenti, si montano e smontano pezzi per trasformarli in qualcos'altro.
Alberto, la faccia infarinata, allampanato nell'elegante marsina lunga fino ai piedi, calotta pelata da cui zampilla una lunga coda di cavallo, entra in scena timidamente ed è da subito assalito dalla rudezza sbrigativa del collega, intento a spazzare il pavimento con un improbabile raccoglibriciole a rullo.
La timidezza svampita del nuovo arrivato gli vale l'apostrofo di “Di-dòn”. È curioso e affascinato, tende le braccia, ora liberate dalla palandrana, per sfiorare, toccare, tastare, provare tutto, mentre il vecchio saltimbanco, diffidente e aggressivo, cerca di prevenire i danni correndogli dietro e coinvolgendolo in una serie di acrobazie esilaranti in cui, a turno, finiscono con la testa od un piede nel secchio per lavare o rotolano a terra, incastrati in una sedia.
Nella foga della fuga, Alberto rivela le sue doti straordinarie di equilibrista che gli fanno guadagnare la stima del vecchio. Questi, chiamandolo ora paternamente “bambino”, lo sfida a prove sempre più ardite.
Il giovane s'illumina però soprattutto alla vista di fisarmonica e ottoni e Morelli licenzia il suo entusiasmo con una scrollata di spalle e una spiegazione laconica: “è un juke-box” dice, ma poi prende posto e suona. Così entra in scena la musica, poiché il giovane, illanguidito dalle poche note iniziali finisce per svuotarsi le tasche dalle monete per ricaricare la 'scatola musicale' e obbligare il vecchio clown ad aggiungere, ogni volta, una sequenza in più al tema iniziale.
D'ora innanzi, gli esercizi di equilibrismo ed i giochi di destrezza, come i numeri acrobatici, saranno accompagnati da poetici intermezzi musicali eseguiti alternativamente da entrambi. Nel valzer di battute e prove d'abilità si aprono valigie, si svelano nascondigli, si scostano tende ed ogni volta viene alla luce uno strumento nuovo, come un coniglio che la mano guantata del prestigiatore estragga dal cilindro: una batteria, il tamburello, la tromba, il trombino, la fisarmonica e l'organetto, il banjo e perfino un corno alpino (Alphorn) che viene assemblato in una scena divertente di fraintendimenti e bisticci di parole e finisce per altercare, burbero, con il cicaleccio allegro del clarinetto.
Ora la sala del bistrot è finalmente riordinata e pronta e Alberto ne approfitta per prendere posto e chiamare il cameriere facendo tintinnare il campanello da tavolo. Morelli arriva, svelto e professionale, finendo di legarsi in vita il grembiule bianco appena indossato e gli porge un ingombrante Menù con la lista di squisite prelibatezze circensi.
Qui, come in tutto il resto dello spettacolo, il dialogo tra i due è eccentrico con un'alternanza di battute, finte, parate in un pastiche linguistico che predilige italiano e francese e riserva lo svizzero tedesco alle arguzie di chiusura. A ritmare queste schermaglie frizzanti interviene la plasticità dei movimenti, la mimica buffa, la goffaggine studiata da cascatori.
Il giovane artista scopre presto che la lista di Delikatessen surreali che ha pomposamente ordinato non è altro che la successione dei numeri di alta acrobazia che il vecchio si aspetta lui esegua, primo tra tutti: “rola-pola avec assiette volant” (cotta à point!). E dopo i piatti volanti viene l'equilibrismo: Alberto dondola leggermente bilanciando il peso sulla tavola del menù appoggiata su un rullo, mentre Morelli posiziona quattro calici di cristallo alle estremità dell'asse e li riempie di un nettare che cambia colore ad ogni zampillo. Poi, a complicar le cose, dà al funambolo una seconda tavola affinché la sovrapponga ai bicchieri. Quando si alza in piedi sulla piramide precaria, Alberto congiunge le mani sopra la testa e accenna un ancheggiamento da danza indiana tra gli applausi esitanti e rapiti del pubblico, che trattiene il respiro spaventato e anticipa un crepitio di risate liberatorie.
Il numero è riuscito, ma il vecchio, travestito da cameriere, presenta il conto, che la mimica del volto smarrito e spaventato di Alberto fa indovinare piuttosto salato.
Un'ispezione di tasche e taschini che si fa, progressivamente, sempre più frenetica, gli ricorda che ha consumato tutte le sue monete per far suonare il juke-box e non può perciò pagare la cena. Nella speranza di farla franca, con un mulinare di braccia e roteare di occhi e guardandosi ripetutamente alle spalle, si affretta ad una fuga al ralenti, da cartone animato. Morelli, appoggiato dietro al bancone con fare annoiato, scruta i suoi movimenti scuotendo la testa. Intercetta infine la rotta e trascina il debitore dietro il bancone a lavare piatti e casseruole, che diventano però presto una batteria di pentole nel vero senso della parola, perché inizia a farci musica a percussione. Il vecchio, intanto, avvolge il vaso di fiori decorativi con una tovaglia al modo di una parrucchiere che sistemi il mantello protettivo sulle spalle del cliente e, armato di forbici, comincia a spuntargli le foglie. Con un metro rigido da muratore controlla i progressi del taglio, che condivide con il fiore mostrandogli il riflesso in uno specchietto. Poi spazzola via i ciuffi di verde e nella gestualità clownesca si appoggia le setole del pennello sotto il naso a mimare un impeto normalizzatore hitleriano. La foga repressiva però gli prende la mano: il cespo di foglie è progressivamente raso al suolo e, infine, un taglio di troppo decapita la gerbera.
Si tenta un salvataggio estremo con l'aiuto di Alberto che, sollevato il grembiule da lavapiatti a coprirsi il naso per mimare una maschera da chirurgo, fa risuonare l'orlo di una campana di cristallo: il sottofondo vibrante che si diffonde intorno ricorda un battito cardiaco ovattato.
La manovra di soccorso fallisce e così i due indossano un cappello nero a pan di zucchero e, armati di clarinetto e fisarmonica, si accomiatano con una marcia funebre dalla pianta, ormai sotterrata sotto un drappo nero. Travolti dalla mestizia decidono di cacciare il dolore con qualche sorsata di “Grappa d'Artista”. L'ebbrezza riconquistata esige ora un registro spensierato e allegro, così Alberto improvvisa con clarinetto, banjo e trombino, mentre il clown annuncia la sua ultima performance: si maschera il viso con il trucco di scena e rispolvera la valigia con i suoi vecchi strumenti del mestiere, accennando ai vari numeri del suo repertorio. Tra un fiore di carta telescopico, tre anelli olimpici e una bottiglia di vino pregiato che sta in bilico sulla punta di un bastone, spuntano un paio
di décolleté lucide, rosso fuoco: “aahhh le scarpe della signora Morelli!” Sospira il vecchio.
Travolto dall'amarcord si toglie i pantaloni e improvvisa una minigonna rossa, poi indossa i tacchi a spillo sui calzini corti e ne testa l'equilibrio precario, mentre completa il travestimento con una parrucca nera e due palle da giocoliere sistemate sotto la maglietta. Nella tarantola commemorativa che segue, il clown, ubriaco di piroette, scivola e muore. Il giovane, preso dal panico, cerca di farlo rinvenire ma poi constata l'inevitabile e cerca di rassettargli i vestiti posticci alla ben e meglio. Poi lo solleva in piedi e gli dà una spinta bel calcolata in modo da farlo rotolare, con due capriole, dentro il bancone al fondo scena.
La solitudine di Alberto non dura a lungo: il vecchio ritorna, bombetta nera, sottoveste bianca e due ali d'angelo spennacchiate attaccate alla schiena. Con una tromba celebra la sua marcia funebre e invita categoricamente il giovane all'ultimo numero di destrezza: equilibrio sul filo teso. Alberto si schernisce, esegue pezzi (solo apparentemente) semplici e ad ogni adempimento, si ferma, riluttante, finché, pressato dallo spirito dell'amico, finalmente si concede in una passeggiata sul cavo che si chiude con varie capriole ed una verticale.
Ora si è definitivamente guadagnato l'investitura ufficiale come successore di Morelli che gli consegna un pacco regalo. Intimidito e sopraffatto da incredulità prima, e gioia poi, Alberto scopre un gilet da cameriere e lo indossa. L'amico gli appoggia un panno bianco sul braccio, poi è la volta dell'insegna del bistrot “il vecchio clown” che passa di mano: Alberto vi scrive con il gesso “Chez Alberto”.
All'uscita dalla tenda blu la cupola di cielo si è aperta e ha svelato il vero manto di velluto, trapunto di stelle. Un quarto di luna vi brillava dentro. Il viaggio verso casa è stato l'epilogo più adatto: una corsa sull'asfalto punteggiato di foglie secche, le gomme le stracciano al passaggio: un applauso crepitante di fogli accartocciati.

Domenica mattina pedalavo, assorta, in direzione della Francia (il confine è a 5 minuti di bici da casa mia): pensavo alla forza dell'arte, al potenziale rivoluzionario della creatività. Poiché i colori dominanti di quella strada di mezza campagna sono il verde (degli alberi) ed il grigio (dell'asfalto), il rosso violento ed il nero, che saltavano fuori da un cartellone pubblicitario, hanno attirato la mia attenzione. In realtà si trattava di un poster propagandistico dello SVP, il partito conservatore svizzero, che avevo citato già nel post Le Nereidi di Kusturica. C'era però, questa volta, una novità: qualcuno ne aveva modificato il messaggio.
Il testo originale recita:
Masseneinwanderung stoppen! = fermare l'immigrazione di massa
e l'arguzia di qualcuno l'ha trasformato in:
RasseneinWahnerung stoppen! = fermare la mania delle razze
@ Debora Cilli, Flughafenstrasse, Basel 2011
Una trovata di spirito, forse di un enigmista, che ha smascherato e disinnescato con un Witz, uno scherzo, la portata intollerante e subdolamente razzista della raffigurazione.
Mi ha fatto pensare a quell'istinto di risata liberatoria, solletico di gioia, nascosto nella gardenia di plastica di un clown, che quando ti abbassi ad annusarla, spruzza uno zampillo irriverente d'acqua. Sdrammatizza, innocuo, persino indifeso, divertimento banale, fanciullesco, eppure potentissimo. 
A me ha fatto sorridere.  

2 commenti:

  1. hai ragione, dopo aver letto il tuo esuriente e delizioso commento, inutile andare a vedere la spettacolo. Ester Manolino

    RispondiElimina
  2. Noo non valeee! :-) Vale la pena andarci, eccome. Conosci la trama ora, ma ti manca tutto il resto: l'interpretazione; l'esperienza dell'attore che si cala nel personaggio; le smorfie di sofferenza e paura che scivolano fuori negli equilibrismi più arditi; il sorriso, sollevato, del successo; gli ammiccamenti; i tempi comici; i trucchi studiati; gli sguardi d'intesa; le luci ed i colori, il sudore ed i frinire dei grilli; il respiro trattenuto del pubblico; gli applausi frementi... Ce n'è ancora abbastanza :-)

    RispondiElimina