venerdì 12 agosto 2011

L'epoca delle passioni tristi, la sommossa inglese e una bimba che non prende sonno

@ rassegna di filosofia Misano

L'epoca delle passioni tristi” è un breve saggio scritto dagli psicoanalisti Miguel Benasayag e Gérard Schmit. La versione italiana del titolo trae in inganno, facendo presagire un romanzo sentimentale, storico chic, mentre la specificazione “Souffrance psychique et crise sociale” dell'edizione francese, chiarisce subito di che si tratti.
Prima di avventurarmi nella descrizione del libro, vorrei fare una premessa. Nella vita capita che, a volte, gli incontri più casuali, quelli che non diresti mai, che ti cascano tra capo e collo senza un perché, siano destinati a trasformarsi [in alcune delle] pietre miliari della nostra esistenza. Capita anche con i libri, certi arrivano dal cielo al momento giusto, quando si è alla ricerca di qualcosa, quando si spera in una risposta, un lume.
Per quanto, per formazione, sia allenata ad immergermi in testi di un passato millenario, a decifrarne i segni e a riportarli a galla, lucidi tesori, tradotti in una lingua di quest'epoca, facevo, negli ultimi tempi, sempre più fatica a decodificare il presente. E mi riferisco alla realtà sociale nella sua globalità e varietà. Più cercavo di raccoglierla e contenerla nelle mani per poterla contemplare a mio agio, più quella mi scivolava via in mille rigagnoli. Una cosa era certa: che per quanto da me inafferrabile, questa realtà mostrava chiari i segni di un'amarezza di fondo, un'incertezza cupa. Quando ho trovato conferma alla mia sensazione nella premessa e dichiarazione d'intenti del saggio, ho capito di aver trovato un passepartout che mi avrebbe probabilmente aiutata ad aprire qualche porta, o almeno a dipanare un po' di nebbia.
Nel corso degli ultimi anni, il numero di famiglie, istituzioni e singoli individui che si sono rivolti ai servizi di sostegno psicologico, in Francia, ha avuto un'impennata e, cosa ancora più significativa, si è fatta strada una richiesta d'aiuto nuova, in aggiunta a quella di tipo psicopatologico 'tradizionale'. Si tratta di una nuova forma di malessere, una tristezza diffusa che coinvolge l'intera società attuale. Ora, che il vivere sia pratica di per sé complessa, è cosa naturale e ciascuno di noi può testimoniare a riguardo; il punto è piuttosto se questa complessità del vivere non sia diventata patologica, visto che la crisi non è più l'eccezione alla regola, è bensì diventata condizione permanente della nostra società. Per provare a spiegare il malessere del nostro tempo, gli autori fanno un salto nel passato a recuperare la percezione del mondo e di se stessi che gli uomini avevano.



Dominava il XIX e XX secolo un'utopia tecnocratica: l'uomo era proteso verso un sapere assoluto, era solo questione di tempo, ma la scienza avrebbe progressivamente svelato tutti i segreti nascosti in seno alla Natura. Così l'individuo, acquisito il potere di previsione degli accadimenti futuri, avrebbe saputo decidere con esattezza quale direzione imprimere alla sua vita e alla sua società. “Libero è colui che domina” (la natura, il reale, il proprio corpo, il tempo) era il fondamento del scientismo positivista, che modellava le nostre società e che si manifestava nella speranza di un futuro migliore e inalterabile. Scienza, politica e filosofia promettevano all'uomo una felicità che egli stesso avrebbe costruito.
Benasayag e Schmit tornano ai giorni nostri per sottolineare come la scienza abbia sì fatto progressi inauditi, ma la sua espansione non sia stata accompagnata da una riflessione capace di orientarla. Inoltre, benché le tecnoscienze abbiano inondato il nostro quotidiano, nel nostro mondo si produce, paradossalmente, la prima grande società dell'ignoranza: il rapporto che ognuno di noi intrattiene con esse è di esteriorità assoluta. E questa è una peculiarità della nostra epoca: le società del passato possedevano anche delle tecniche ma, al di là delle divisioni del lavoro, esse non funzionavano secondo una propria logica, indipendente da ogni considerazione umana e culturale, avevano con i membri della società un rapporto di intimità. La nostra società è la prima che dalle tecniche sia, invece, letteralmente posseduta: ci limitiamo a premere dei pulsanti ignorando quali meccanismi vengano innescati.
Se da una parte la scienza vive un'accelerazione senza controllo e pare capace di tutto, dall'altra si rivela invece inetta a sopprimere la sofferenza umana, poiché non può nulla contro la tristezza ed il pessimismo dilaganti. Causa prima dell'insicurezza è certo la lista delle minacce che sono diventate parte integrante della nostra realtà: inquinamento, disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove malattie. Il futuro, insomma, da che era promessa luminosa, in cui si aveva fiducia smisurata, è diventato minaccia oscura. Dal mito dell'onnipotenza, al mito dell'impotenza.
Freud scriveva che “in mancanza della felicità gli uomini si accontentano di evitare l'infelicità”. Oggi, la sconfitta dell'ottimismo, ci lascia non solo senza promesse future ma anche con il sentimento che perfino evitare l'infelicità sia un compito troppo arduo.
Viviamo, secondo gli autori, in un'epoca che Spinoza chiamava “delle passioni tristi”, intendendo un senso di impotenza e disgregazione. Ci sentiamo, insomma, abbandonati agli sconvolgimenti del destino ma, nonostante questo, tendiamo globalmente a rifiutare di prendere atto dello stato di crisi.
Benasayag e Schmit ritengono che non solo i singoli individui, ma perfino le diverse istituzioni deputate ad educare si comportino come se fossimo di fronte ad un'impasse momentanea, niente che non sia superabile con la tecnica e la buona volontà. Si generano così ideali sostitutivi, che ovviamente non sono in grado di rimpiazzare la 'narrazione' del messianismo scientifico che è andata perduta.
Uno di questi è l'utilitarismo, presentato come la sola ideologia in grado di affrontare lo stato di emergenza prodotto dalla crisi. Di fronte all'indecifrabilità del reale, esso ci offre criteri di giudizio chiari, univoci: criteri quantitativi. In questa visione utilitaristica del mondo, l'umanità appare costituita da una serie di individui isolati, che intrattengono tra loro innanzitutto relazioni contrattuali e competitive, facendo passare in secondo piano le affinità elettive, le solidarietà familiari o di altro tipo. È il ritratto di una società neoliberista, in cui la sola gerarchia e la sola autorità accettabili sono determinate dal successo e dal potere personale, valutati all'interno dell'universo della merce: vale a dire che la chiave del successo è nel possesso. Le relazioni interpersonali si strutturano secondo criteri di utilità, in termini di produzione di profitti e di potere. Logica degna di un allevamento industriale in cui si selezionano progressivamente i capi migliori, e gli altri sono falliti, binari morti.
Una società così, in perenne 'codice rosso', deve adeguare anche l'istruzione allo stato d'emergenza: la cultura per se stessa col tempo diventa un lusso, ogni sapere deve essere 'utile', ogni insegnamento deve 'servire a qualcosa'. La scuola si deve adeguare e dare gli strumenti ai giovani per vincere questa competizione globale, 'armarli' e allenarli alla lotta, perché possano affrontare con successo la giungla spietata che li attende. Questo atteggiamento però, paradossalmente, non serve a proteggerli, ma al contrario asseconda quel sistema da cui si pretende di metterli al riparo.
L'educazione dei nostri figli non è quindi più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericoli incombenti: “se non studi, se non ti diplomi, se non ti laurei... Non troverai lavoro, sarai un fallito...” Dal punto di vista psicanalitico, ogni tentativo di educare qualcuno fondandosi sulla minaccia è destinato a fallire oltre ad essere potenzialmente molto pericoloso, ammoniscono gli autori, perché non si può mai sapere in quale momento la minaccia del disastro si trasformi in promessa di disastro. Entra in gioco la pulsione di morte, c'è infatti nella distruzione e nella decadenza una forma di attrazione aberrante ma innegabile: fa parte della complessità dell'uomo.
Inoltre il tempo dell'apprendimento è stato annullato: nell'emergenza della crisi non c'è tempo per pensare, programmare, bisogna agire subito, soprattutto in uno stato di competizione estrema, non si può perdere tempo perché c'è il rischio di farsi sorpassare dagli altri. L'uomo, però, non può comprendere le cose in sé, immediatamente, istantaneamente, ha bisogno di un tempo di sedimentazione del concetto, ha bisogno del tempo per pensarlo. L'essere umano esiste unicamente in un universo di parole, di concetti e di cultura, che non lascia alcuna via d'accesso ad un'eventuale
realtà diretta. Il “tempo della cosa” come Hegel chiama il concetto, non è una perdita di tempo, né un elemento opzionale, è attraverso la creazione dei concetti, l'assunzione dell'umanità soggettiva e culturale che si stabiliscono i legami, che il bambino si umanizza.
Società in crisi, cultura che ha visto trasformare il suo fondamento principale (il futuro-promessa) nel suo contrario (il futuro-minaccia), educazione dell'emergenza. C'è da chiedersi che credibilità sia rimasta ai mediatori della cultura/istituzioni educative. Il quadro che tratteggiano gli autori, a questo riguardo, non è consolante. Il principio d'autorità è infatti fortemente in crisi.
Esso si fondava su un principio universale, valido in tutte le culture (come spiega l'etnologa Françoise Héritier), quello di anteriorità: l'anzianità rappresenta automaticamente una fonte di autorità perché incarna la possibilità di trasmissione della cultura e, in quanto tale, garantisce la sopravvivenza della comunità. Il giovane ubbidisce perché chi gli è più anziano incarna la promessa dell'adulto che sarà, rappresenta per lui l'invito a dirigersi verso un superiore obiettivo comune.
Ora invece, nella società della mercificazione e dell'utilitarismo, la relazione con l'adulto è percepita come simmetrica: non esiste più una differenza in grado di instaurare automaticamente un'autorità e di costruire al tempo stesso un senso e un contesto propizi alla relazione.
Questa difficoltà dei genitori ad assumere una posizione di autorità rassicurante e 'contenitiva' lascia il bambino solo di fronte alle proprie pulsioni e all'ansia che ne deriva e dall'altra apre la strada a forme di autoritarismo. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, lungi dall'inaugurare un'epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione, perché oscilla tra due tentazioni: quella della coercizione e quella della seduzione di tipo commerciale. I ragazzi sono bombardati da messaggi pubblicitari che promuovono un mondo in cui la sola cosa che conta è la capacità di possedere. Se il giovane non è sedotto o dominato non vede nessun motivo di ubbidire a questo suo simile che pretende di meritare il rispetto. Così alcuni insegnanti cercano a volte di ottenere l'attenzione dei loro allievi mediante astuzie e tecniche di seduzione e il giovane o l'allievo assume il ruolo di cliente che accetta o rifiuta ciò che l'adulto-venditore propone. Quando questa strategia fallisce, non rimane altra via d'uscita che quella della coercizione e forza bruta, che prelude invariabilmente a reazioni di violenza.
Un altro sintomo di questi tempi di crisi è che l'adolescenza si è notevolmente allungata.
In una società stabile, o mediamente stabile, la “crisi dell'adolescenza” finisce quando il giovane raggiunge una certa stabilità e può entrare a pieno titolo a far parte della comunità, non più come figlio, ma come suo membro e assumersene le relative responsabilità.
La cultura attuale però è essa stessa in crisi, quindi non può offrire all'adolescente il contesto protettivo e strutturante di cui la sua crisi personale ha bisogno.
Neppure la famiglia offre più uno spazio in cui il giovane possa svolgere la sua esplorazione, ribellione, superamento, in una sorta di gioco tra desiderio e principio di realtà. Messo di fronte a questo vuoto, egli sposta la ricerca del limite dalla cerchia degli intimi alla città. Come si dice in gergo, per lui (o lei) si tratta di “farsi il suo Edipo con la polizia”.
Trasportate nei quartieri, le trasgressioni perdono la loro dimensione simbolica e ludica e diventano semplicemente dei reati, punibili dalla società, perché le leggi del codice civile non vengono istituite per orientare lo sviluppo e l'educazione dell'essere umano: presuppongono che i cittadini siano già educati e di conseguenza responsabili delle violazioni. Consumando così le loro energie in ribellioni del tutto inefficaci, i ragazzi prolungano per un tempo indefinito la loro adolescenza.
Un'altra conseguenza è, infine, che poiché le forze dell'ordine rispondono a questo tipo di provocazioni in modo simmetrico si crea un circolo vizioso di aggressione e repressione, che incita i politici a fare dell'insicurezza l'asse centrale delle loro proposte politiche, rischiando di trascinare la nostra società verso una deriva disciplinare.
Siamo in un mondo in cui tutto è possibile a chi ha i mezzi per ottenerlo. Non si tratta di evitare la trasgressione, la trasgressione è anzi la regola. Si deve evitare di farsi prendere: il corrotto impunito è il nuovo eroe di questi tempi senza fede né legge. Da questo punto di vista, il giovane che non accetta i limiti è davvero in sintonia con la società, molto più degli adulti, educatori e terapeuti, osservano gli autori.
E qui mi vengono in mente i disordini che hanno sconvolto l'Inghilterra negli ultimi giorni.
Gruppi di ragazzi che, apparentemente senza motivo, si abbandonano alla devastazione fine a se stessa. Obiettivo sono soprattutto i negozi, loro dicono, “dei ricchi”, ma la ribellione non ha rivendicazioni di giustizia sociale. È un eclatante sfogo di frustrazione e noia. Significativo è, a questo riguardo, il video che sta facendo il giro del web e ormai diventato virale, di una abitante del quartiere di Hackney che accusa proprio l'assurdità di una sfida senza motivo: “Get real. Do it for a cause!” Tuona, “sceglietevi una buona causa invece di distruggere Footlocker o i rivenditori TV.”
La polizia metropolitana dice che il servizio di messaggistica BlackBerry ha svolto un ruolo chiave nel diffondere le notizie e istruzioni durante i disordini, perché, nonostante la sua ridotta visibilità, rispetto a più diffusi social-networks come facebook o twitter, è più difficile da intercettare. Alcuni di questi testi sono stati riportati dai media ed è interessante scorrerli per cercare di capire.
Gli ingredienti ci sono tutti: c'è la trasgressione che oltrepassa un limite, c'è l'autorità da sfidare, c'è lo status quo da mettere in discussione. Ma c'è anche un aspetto in più che, come abbiamo visto, connota la nostra società del profitto: ed è la 'roba' da portarsi via.
L'invito a convergere in determinate zone della città per darsi al saccheggio allude a farsi “un sacco di soldi”, “diventare ricchi” (“Everyone meet at 7 at stratford park and let's get rich”; “If you're down for making money, we're about to go hard in east london tonight, yes tonight!!”). “Possiamo fare quello che vogliamo! Alcol gratis!” arringano un paio di ragazze di fronte ai microfoni di una reporter della BBC. Se una volta testare il limite voleva dire rubare una bottiglia di vino dalla cantina familiare e ubriacarsi nel piacere di aver violato una prerogativa degli 'adulti', ora si tratta di saccheggiare una vineria e darle fuoco; dare la caccia e farla pagare alla polizia che “tiranneggia oltre il limite”.
E c'è però, curiosamente, una precisazione: “Non siamo al verde, ma chi rifiuta roba gratis?” (“We’re not broke, but who says no to free stuff”) Rivendicano cioè di non essere 'poveri', perché povertà è, secondo l'ottica neoliberista, segno di fallimento sociale, come abbiamo visto. “Non lo facciamo perché spinti dal bisogno”, sembrano rivendicare, “ma per dimostrare quanto siamo cool.” Nello sconvolgimento generale i ribelli mutuano premesse concettuali dello stesso mondo che fumosamente dicono di voler combattere, da una parte devastano la vetrina di una marca per urlare il loro rifiuto agli status symbol della società massificata, dall'altra sperano di arraffare quanto più possibile di quelle stesse icone del consumismo.
Viviamo in un'epoca in cui è stato ucciso il desiderio, perché occorre innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. Il desiderio è alla base della creatività, è la voglia che ci fa aspirare a qualcosa di meglio, che ci spinge ad esplorare nuove vie e nuovi mondi. Desiderare è diventato affare da utopisti perditempo e il diritto/dovere di farlo è rimandato a 'tempi migliori', a quando l'emergenza sarà finita. E come risarcimento la nostra società fa un'apologia delle voglie, che sono un'ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati.
Una trappola fatale. A giudizio di Benasayag e Schmit. Più sviluppiamo la serialità e l'individualismo, più rendiamo pericoloso il mondo e lasciamo che l'emergenza, il non-pensiero e la tristezza governino la nostra vita.

Aprire la serie di porte chiuse, che si trova di fronte la nostra civiltà, risolverne le aporie, è possibile, secondo gli autori, se riscopriamo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione.
Recuperare l'individualità invece dell'individualismo: la complessità e molteplicità che costituisce d'identità e la storia di ciascun individuo. Che in questo senso non può essere formattato e classificato aprioristicamente secondo logiche utilitaristiche; dietro a quelli che la società attuale definisce 'vincenti' o 'perdenti' c'è un caleidoscopio di fragilità e complessità che i primi devono dolorosamente nascondere e che per i secondi sono stigmate del fallimento. Ricchezza delle differenze a cui dovrebbe dare cittadinanza anche la scuola. Una scuola che non ci chieda di essere 'forti' per resistere alle emergenze della vita, ma dove sia possibile essere né forti, né deboli, semplicemente se stessi ed essere messi in grado di affrontare insieme le difficoltà della vita. “Insieme” è la chiave di volta.
Mi viene da pensare alle centinaia di persone che si sono date appuntamento il 10 agosto, nelle varie città inglesi, teatro di scontri, per una veglia funebre in ricordo dei tre giovani di origine asiatica travolti da un'auto mentre tentavano di difendere il loro quartiere dai saccheggi. E alle migliaia di volontari che sono scesi in strada a Londra, a Birmingham, Manchester e in molti altri centri per ripulire la devastazione. Voci di calma e ragionevolezza, che suggeriscono un modo diverso, nella comunità.
Se vogliamo produrre qualcosa di 'altro' dal disastro, dobbiamo recuperare i legami, la base comune, che costituisce il fondamento collettivo di ogni differenza. La famiglia e le strutture dell'organizzazione sociale di persone e gruppi che contengono, in piccolo, tutte le determinanti culturali, geografiche, storiche, biologiche ecc. del nostro mondo in questa fase del divenire della civiltà umana. Riscoprire se stessi, socraticamente, i propri limiti, non nel senso di impedimenti frustranti, ma della esaltante consapevolezza di quanto ci sia invece possibile realizzare. Invece di opporre teorie astratte ai comportamenti dannosi, nutrire pratiche alternative più desiderabili, potenti e ricche.
In questo senso un ruolo imprescindibile ha l'educazione perché, in tutte le società, suo è il compito di trasmettere i valori e i principi che assicurano la continuità di una cultura. Secondo Freud e la stragrande maggioranza di educatori ed insegnanti, non è il solo istinto di sopravvivenza, il puro utilitarismo quindi, a giocare un ruolo nell'apprendimento. È un vero desiderio di cultura. Il desiderio pone in relazione, crea legami, anche perché la promessa del futuro invita il giovane a entrare nella società, a condividere, a conoscere e ad appropriarsi dei suoi fondamenti.

Teniamo conto che si tratta di un saggio, tra l'altro molto sintetico che condensa in 130 pagine premesse, status quaestionis e conclusioni, necessariamente traccia come un percorso coerente ed omogeneo quello che invece nel corso degli ultimi decenni deve essersi verosimilmente snodato con un andamento più aberrante, sincopato, fatto di grandi balzi avanti, di ritorni, di circoli viziosi. Le evoluzioni o involuzioni, a seconda di come la si veda, della storia, non hanno mai la linearità razionale che la nostra necessità chiarificatrice impone. Di questo è necessario, a mio avviso, tener conto, così come del ritmo pamphlettistico del testo che invita a confronti, di tono magari anche più neutro. Detto questo, l'analisi è lucida e offre una chiave interpretativa piuttosto calzante.
Visto che non amo affondare nell'impotenza e neppure restare sospesa a sterili teorie astratte, reazioni che meno che mai avrebbero auspicato Benasayag e Schmit, mi sono chiesta cosa potessi fare io, nel quotidiano, per non indulgere all'ideologia utilitarista, per annaffiare il guardino dell'umanità che partecipa del mio microcosmo. Un suggerimento me l'ha dato mia figlia, e non è la prima volta che mi toglie dai miei cul de sac filosofici.
L'altra sera la sentivo parlare da sola e rigirare nel letto senza pace, finché il cigolio del legno sotto i suoi passi mi ha avvertita che stava arrivando in camera mia. Un fantasmino dai passi strascicati si stagliava nella cornice della porta. Dalla pozza d'ombra dietro di lei, emergeva quel tanto che il bagliore del mio Mac riusciva a raggiungere. Lacrime pesanti le pendevano dagli occhi lucidi, mi si è aggrappata al collo e non c'era verso di calmarla. Così ci siamo sedute sul mio letto e ho scoperto il problema: lunedì prossimo inizierà la scuola e l'ansia pare le stia togliendo il sonno. Tempo fa, quando mi chiedeva perché si dovesse andare a scuola, le mie risposte orbitavano prevalentemente nell'ambito dell'utile. Non solo nel senso, molto pratico e poco poetico, di poter poi, per esempio, una volta imparato a leggere, saper decifrare le etichette sui prodotti ed eventualmente identificarne quelli pericolosi. Ma anche in chiave più socio-politica perché educazione, conoscenza, è sinonimo di libertà, almeno libertà dell'anima ed intellettuale, capacità di autodeterminazione, senso critico e quindi possibilità di scelta e di giudizio. La scorsa notte all'improvviso ho ricordato le 'passioni tristi', e ho deciso istantaneamente di lasciare i vecchi discorsi da parte e le ho parlato solo del piacere e della bellezza dello studio.
Ho cercato di stuzzicare il suo innato desiderio di apprendere, di svegliarlo e dargli coraggio. Ho chiuso gli occhi e ho pensato a me, a quello che provo quando mi si schiude un nuovo scrigno del sapere... Mi si è stampato in faccia un sorriso un po' idiota e ho cominciato a delirare sulla gioia pura e traboccante che ci invade, quando ci si rivela un nuovo pezzo di vita o una piega nascosta dell'animo umano. Appagamento, senso di compimento, nient'altro. Le ho parlato della mia maestra delle elementari, Maria, che ci insegnò che aprire un libro è molto di più che sfogliarne le prime pagine. È un atto rivoluzionario, che si addice solo agli audaci, perché dal più innocuo volumetto, in un attimo, ti sboccia davanti al naso, con l'impeto multicolore di un fuoco d'artificio, un mondo intero. Dei tanti classici che ci lesse, ricordo distintamente le avventure esilaranti di “Tre uomini in barca”, di Jerome K. Jerome. Mi faceva ridere a crepapelle, ma non tanto la risata di fuori, quella di dentro: che nasce nella pancia, sfarfalla lì un po' con gioiosi brividi e solletico e poi trabocca e spuma fin in punta di labbra, con un sorriso pieno. Ascoltavo la maestra leggere, affascinata, e speravo l'ora non finisse mai. Poi ho raccontato ad Amélie di quando mio padre tornava a casa la sera, dopo la Fiat e ripartiva per andare a seguire i corsi serali dell'Università ed io, 3 anni, mi aggrappavo alla sua gamba, mi accovacciavo sul suo piede e rifiutavo di alzarmi, impedendogli i movimenti, a meno che non mi portasse con lui. Così la sera, spesso, mi ritrovavo a correre sotto i banchi alti delle aule di architettura, facendo cigolare i listoni di legno del pavimento, mentre una voce estranea rimbombava e un gesso grattava la lavagna. Una volta mio padre deve aver strappato dei fogli dal suo quaderno e deve avermeli allungati sotto il tavolo, sperando di distrarmi e farmi star tranquilla. Io invece ebbi la brillante idea di farne una palla e da lì a nutrire e poi voler realizzare il desiderio di lanciarla passò un amen. Il mio missile di carta planò sulla cattedra della professoressa, che da tempo sapeva delle mie scorribande 'sotto copertura' e glissava. Questa volta disse: “va bene ho capito, tutti a casa: la bambina ha fame.”
Alla fine della mia aneddotica familiare Amélie rideva di soppiatto con la testa sul cuscino e si è addormentata sorridendo. Così ho pensato che uno dei miei compiti sarà quello di soffiare sui tizzoni dei suoi sogni, perché si facciano lapilli incandescenti di desideri; di tramandarle le mille piccole trame della sua storia, così che possa aggiungervi il suo ordito; di aiutarla ad accettarsi per quella magnifica, complessa, forte, testarda e fragile creatura che è.

3 commenti:

  1. Ha saputo dare un giusto equilibrio al malessere che invade questa generazione che si riflette sulla dedizione verso la figlia. Una mamma che si preoccupa di capire il presente e agire nel suo modo di vivere per dare un futuro più sereno alla sua piccola. Un bellissimo testo. LuAip51

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  2. Perchè ci si chiede come mai Amelie sia tanto sensibile quando la madre
    è un vulcano di integrità, consistenza, personalità? Debora, che
    meraviglia quello che sai passare alla piccola!
    Ester Manolino

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  3. e pensare che tutto questo viene dai "pistacchi".

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