mercoledì 12 giugno 2013

“Die Alp träumt” al Vorstadttheater Basel– incubo di una notte d'inizio estate

@ www.vorstadttheaterbasel.ch

Per prima cosa la pièce parla di uomini e donne, madri e figli, padri e figlie e dei loro rapporti reciproci. In un'altalena che sovverte e ristabilisce continuamente gli equilibri di forza. Ci sono donne timide e remissive, altre manipolatrici e morbose, c'è quella solida, d'aspro buon senso e modi spicci e la dolce, romantica, eppure savia. E ci sono uomini insicuri e bambocci, o scaltri e affabulatori, ingenui sempliciotti o calcolatori spregiudicati, ma anche sognatori che volano alto per quanto si sforzino di ancorare le loro speranze bene a terra. Ci sono i bulli ed i saggi, le belle e le acide, giovani e vecchi: in tre, sul palco, mettono in scena l'umanità tutta.

Un'altra chiave di lettura la suggerisce il titolo: “Die Alp träumt” che reca l'ambivalenza di un significato piano “l'Alpe sogna” e del suo rovescio: l'incubo (ossia, letteralmente “der Alptraum”), che si svela quando su questo gioco di parole cala la notte.
Sogni e incubi, quindi, nelle loro più varie, persino surreali, declinazioni. Ci sono i sogni di felicità di Josef, i sogni di gloria di Amand, i sogni premonitori di Viktorine che non vuole uno sposo morto; i sogni degli uomini e gli incubi dell'Alpe che non vuole la loro civiltà sui suoi algidi fianchi di ghiaccio.


Di materiale narrativo ce ne sarebbe già abbastanza così, ma sceneggiatura ed interpretazione scenica vanno oltre. La rete di messaggi che imbastiscono è fitta, basta abbandonarsi alle sue maglie, lasciarsi avviluppare dai suoi intrecci, per scoprire un mondo fantasmagorico, a tratti clownesco, quasi felliniano. E così, un po' sopra le righe, è anche la presenza scenica, in equilibrio volutamente instabile tra il classicismo e la contemporaneità sperimentale. Sfida concretizzata dalle zeppe che i tre attori indossano e che ricordano i coturni del teatro greco di V sec. a.C. Come allora, li elevano, li rendono statuari, quasi imponenti, però li impacciano anche. I loro movimenti non hanno la ieratica autorevolezza antica, sono ridicolizzati dalle paillettes che ne fanno icone un po' drag-queen, resi instabili da trampoli che li obbligano ad un incedere arcuato da fenicottero e in quell'arrancare dondolante interrotto da balzi e falcate è la metafora dolente dell'impotenza di noi tutti.

Questo vacillare tra ambizioni futuriste e banali impedimenti della contingenza è comun denominatore dell'intero racconto. Se al centro dell'azione c'è un'appena travagliata relazione amorosa inserita nel vivace microcosmo di un villaggio alpigiano, allusioni, sottintesi, citazioni e ammiccamenti lasciano trasparire, tra le righe di quel contesto bucolico e rassicurante, le piaghe, le screpolature, le devianze di una società che si fa specchio della nostra.

L'ambientazione, come accennato, inganna, poiché niente potrebbe essere più lontano dalla frenesia contemporanea di un innocuo villaggio alpino incastonato tra pieghe smeraldine di una valle punteggiata di greggi, che si allarga ai piedi di un'austera cortina di picchi nevosi dai nomi immaginifici (cima del re, cima della montagna d'oro, cuffia del vescovo...). Il muggito degli armenti s'intreccia al richiamo pieno e rotondo dei corni alpini che rincorre altri versi e suoni della natura sul grandioso scenario di ghiacciai abbaglianti e verde sfacciato.

Nel cuore di quella fecondità è il villaggio e anche lì brulica la vita. Le case si affastellano una all'altra, in una planimetria gioiosamente caotica. La scuola, la panetteria, la macelleria, la piazza del mercato e, ovunque, razzolanti, zampettanti, in corsa, a volo, una frotta di pecore, capre, galline.

Dalla cacofonia ruvida di una piccola comunità caotica e sfaccettata emergono i tre protagonisti: i fidanzati Josef e Viktorine ed il primo cittadino, Amand. I primi due, poi, si sdoppieranno in svariate altre coppie di valligiani, intrecciando davanti al pubblico un variopinto rondò di caratteri e storie, tratteggiati in caricature così pregnanti da farne paradigmi universali.

Il sogno, dicevamo, come tema portante.
Amand con i sogni della gente fa affari: li distrae, li manipola, li orienta ai suoi fini. È uno scaltro opportunista con manie di grandezza, sindaco del villaggio lo vuole trasformare, sostanzialmente, in una metropoli. La sua ambizione si nutre della follia dell'irrealtà eppure sa infettare i compaesani.

Poiché anche loro hanno i loro piccoli sogni. Haini e Rebekka, per esempio, sono troppo timidi e impacciati per dichiararsi vicendevolmente un amore che li strugge e quando Amand chiede, a ciascuno di loro, “e tu? Cosa sogni?” si rifugiano, per pudore, in risposte ridicole: “un nuovo forcone” bisbiglia lui, “un secchio nuovo per pulire” si schermisce lei. Risposte meccaniche a nascondere non il vero desiderio, quanto una sua idealizzazione. Ché il loro sogno: avere il coraggio di mettersi in gioco per conquistare l'altro, sarebbe realizzabilissimo, ma non hanno la forza di crederci. Allora preferiscono travestirlo d'utopia per giustificare la loro inanità. Lei si abbandona alle fantasticherie stimolate dalla domanda melliflua del sindaco e osa, lì sì nella fantasia, osa, farsi ballerina, alla Scala! “150.000 posti, tutti esauriti e Hairi, in prima fila con dieci rose rosse!” E lei danza, danza, danza per lui.

Poi tocca ad Haini, anche lui vede nell'illusione l'unica soluzione a quell'impasse senza uscita: se solo fosse un superuomo, un collage del meglio di tutti i belli e di successo del pianeta, con superpoteri, be' volerebbe a salvare la sua bella rapita dalle formiche killer in fuga verso la Siberia.
E allora sì lei si accorgerebbe di lui.

Josef e Viktorine si vogliono sposare, nonostante il boicottaggio subliminale della madre di lui, lamentosa manipolatrice che spera di vincere la concorrenza a colpi di ricatti morali. Ma c'è un problema: mancano i soldi per, diciamo così, la dote. Allora il sogno di Josef è andare sull'Alpe con le mandrie a guadagnarsi il necessario, un incubo per Viktorine che ricorda i racconti dei padri: l'ultima volta che qualcuno ha provato a profanare quelle vette si è scatenata una moria di uomini e bestie, colpiti da schegge di ghiaccio che infiammavano e poi incancrenivano tutto. Mani nere, lingue blu, armenti stesi sul prato, con le zampe rigide volte al cielo. Lei lo sa e teme quella vendetta spietata.

Amand che impersona il cliché (ci piace crederlo...) del politico prono ai mezzucci più biechi per piegare cose e persone ai suoi interessi, ha un'ambizione: dare una svolta al 'vecchio' villaggio e per convincere (o meglio: coartare a loro insaputa) i concittadini, usa parole che non hanno niente di politico, sono termini pubblicitari: dobbiamo essere attrattivi! C'è bisogno di nuovo, non importa quanto irragionevole e inopportuno, conta colpire la fantasia delle persone e indurre in loro bisogni che non sapevano neanche di avere. “Dove sono i vostri sogni, le vostre passioni?” chiede, laddove la risposta nulla ha a che fare con i veri sogni e le vere passioni di ciascuno, ma con supposte ambizioni comuni spacciate per progresso a vantaggio dei singoli.

Pur di raggiungere il suo scopo, non si fa scrupolo a comprare i voti, corrompere l'elettorato con regalie e promesse; li va a stanare, i potenziali sostenitori, direttamente a casa, gli si presenta davanti alla porta, con una bottiglia di acquavite che dona generosamente bombardando il concittadino di domande mirate e vincolanti, spire di una sottile, eppure semplice, manipolazione che induce la risposta pretesa (non solo sperata!), il tutto con un sorriso da caimano.

Alla riunione plenaria del villaggio Amand concede graziosamente l'ingresso anche alle signore (gustoso ammicco critico al cantone d'Appenzell in cui il voto alle donne fu consentito solo nel 1990 e grazie alla decisione del Tribunale Federale Svizzero). E loro sciamano gioiosamente entro. Il chiocciare caotico di vecchie e giovani, sfacciate, tignose, argute, dure di comprendonio, sfrontate, allegre, ironiche, offre a prima vista un'immagine apparentemente dissacrante della figura femminile e vagamente misogina, ma si rivela poi un boomerang che restituisce, attraverso il ridicolo di quel tumulto femmineo, una sua celebrazione. Incorona la freschezza irresistibile delle valligiane gettando nell'ombra, inaspettatamente e per contrasto, il machismo imperante.

Quella di Amand è, metaforicamente, un'erezione di potenza che porta il popolo al deliquio. Partendo in sordina e da un fatto relativamente insignificante (la morte della mucca Herda), prima lo enfatizza, poi inanella una serie serrata di argomentazioni che lo trascendono del tutto fino ad approdare a proposte aliene al punto di partenza e del tutto illogiche. Concitato e appassionato Amand affastella visioni di crescita infinita (che, se ci fossero state prima, avrebbero stornato il decesso della bovina), in cui grandi opere di cemento spuntano come funghi a sventrare, deturpare, sconvolgere uomo e ambiente. Con un monologo che strappa il respiro, danza tarantolato sulle parole scomponendole e ricucendole in giochi infiniti di rimandi e allusioni, un tono di voce che si fa più potente e insinuante ad ogni frase, Amand infervora la folla fino a portarla al boato finale quando urla, con l'ultimo fiato rimastogli: “chi è a favore?”

Ad un'altra grandiosa prova d'attore (di entrambi, per la verità) si assiste nella scena successiva in cui Josef e Viktorine festeggiano, con gli altri, l'inizio di quella nuova era, danze e bevande a volontà, l'euforia ha contagiato tutti, un'ubriacatura di massa che li rende grandiosamente irresistibili e banalmente sciocchi. Josef corteggia la sua fidanzata con la baldanza smargiassa di un adolescente troppo cresciuto, un po' stolto, annebbiato e puerile, pure con guizzi geniali, però del tutto insignificanti. È forse la dolorosa ammissione inconscia di aver ceduto la propria adulta libertà di scelta ad un incantatore di serpenti che venderà la loro anima al diavolo.

Josef sale sull'Alpe, con il cuore incatenato al villaggio, tra le mani di una Viktorine piangente.
In passato, lei crede ai racconti dei vecchi, la montagna ha punito l'ambizione umana di violarne la vetta, come eterno ricorso della torre di Babele.
La sua cima di ghiacciaio si era staccata come simbolica nemesi che colpisce quanto di più sacro e inviolabile abbiano gli umani: una chiesa nella celebrazione di un matrimonio. La gioia, la festa, religiosa e profana, sacra e carnale, per antonomasia, un abito bianco, fiori candidi, le speranze, il rito che segna l'inizio della vita sociale che è anticipazione della procreazione, nodo di sogni giovani, inesperti, pure intrepidi, appassionati. Questo bozzolo di simboli umani e divini strappato e macchiato di sangue.
Poi il ghiaccio si era sciolto e l'acqua aveva travolto case, uomini e animali con furia biblica.

Questa volta tutto ciò non è più necessario, ora alla Natura basta mandare qualche visione, qualche incubo ad occhi aperti, perché siano i valligiani stessi a portare a termine da soli quello che, altre volte, ha fatto la montagna. Urla terrifiche che scuotono i ghiacci, immaginiamo ectoplasmi dai contorni deformati, stravolti e mostruosi, volti straziati di dolore e minaccia che scatenano la paura e la caccia al Nemico. Ma Nemico diventa chiunque si muova ai bordi del villaggio, mostro, uomo o animale, poco importa. Il Nemico diventa l'Altro e la paranoia collettiva si trasforma in liberatoria opportunità di fare i conti con vecchi rancori, di sfogare frustrazioni e controversie finora represse sotto un'apparente ruvida convivialità, in un vivere sociale a tratti forzatamente urbano, cortese a denti stretti, intimamente ipocrita.

La miccia è pronta da tempo, basta la scusa di una scintilla e si scatena l'inferno, un balletto surreale accompagnato da una cavalcata di note sempre più assordanti che celebrano degnamente la distruzione totale.
Le scene si fanno sempre più drammatiche, volutamente esagerate, scivolano nello splatter, nella violenza bombastica, feroce, insensata e gratuita (ma in fondo, quando non lo è?)
E una frase, una sola, di sanguinaria ragionevolezza spiega, prima che crolli a terra anche l'ultimo vivo rimasto, che causa di tutto è stato il sindaco, causa di quel delirio d'onnipotenza e prepotenza collettiva e lui quindi, inchiodato alla croce di questa accusa insolvibile, deve morire, più di tutti forse, come espiazione e controbilanciamento della morte di tutti.

Oggigiorno ci vuole coraggio a mettere in scena uno spettacolo che non sia di mero intrattenimento.
Ce ne vuole a forzare il pubblico a pensare. Avevamo le palpebre incollate all'arcata sopraccigliare in uno sguardo sbarrato, da bambola attonita e le scene ci sono entrate dentro, ci hanno travolto e fatto male. Non potevamo chiudere gli occhi, guardare altrove, ritrarci, sperare di dimenticare. Dovevamo restare lì fino alla fine e berne fino all'ultima goccia. Per sedurti a tanto ci vuole una maestria eccezionale e quest'audacia della sceneggiatura è stata celebrata da una recitazione da togliere il fiato, Gina Durler, Samuel Kübler e
Benjamin Mathis hanno saputo cavalcare con presa salda e colpi d'inventiva le onde selvagge di un testo geniale ed impegnativo, infarcito di giochi di parole rocamboleschi.

La corsa alla crescita infinita, l'ambizione ad un progresso insensato e violento che travolge la natura fisica del mondo e quella spirituale dell'uomo, non porta ad altro che alla distruzione.
Ma al pubblico che siede, stravolto e schiaffeggiato, prima lenito con le risate, anestetizzato con le capriole di un'affabulazione acrobatica e poi brutalizzato con la cruda allusione al reale (cruda non è l'allusione, bensì il reale alluso!), non rimane che un ultimo dolcetto ad addolcirgli la paura: era tutto un sogno o forse un film, “un documentario con massacro” come dicono i tre protagonisti divenuti bambini stravaccati davanti al televisore, a notte alta, con l'indifferenza tragica e brutale che è di tutti noi, perché al lieto fine che ha causticamente allietato il villaggio poco prima (Viktorine e Josef si sposano: era, appunto, tutto solo un brutto sogno) non ci ha creduto nessuno.

Ps. “Die Alp träumt – ein Dorf im Höhenrausch” è in scena al Vorstadttheater Basel nelle seguenti date: 15.06, 21.06., 22.06., 28.06., 29.06.

1 commento:

  1. sono rimasta senza fiato in questo susseguirsi di azioni, emozioni, colori...per fortuna è stato un sogno...ma troppo vicino alla realtà. Bravissima.
    LuAip1951

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