venerdì 3 maggio 2013

Petra, le sfide dell'esposizione basilese (versione italiana ed ampliata dell'articolo “Vom Geruch der Wüste”, sul Basler Zeitung del 10.04.2013)

 
Antikenmuseum und Sammlung Ludwig, Basel @ www.landeskunde-online.de

La proroga di due mesi della mostra “Petra: Meraviglia nel Deserto” al museo di antichità di Basilea non deve stupire: Petra ha tutte le caratteristiche per suscitare la curiosità dei profani e catalizzare l'interesse d'intenditori ed appassionati di cultura.

La sua aura d'avventura e mistero esercita, da sempre, un forte fascino sulla fantasia collettiva. Annoverata tra le nuove sette meraviglie del mondo, la più famosa città rocciosa della Giordania – per lo meno in qualità di icona – è ampiamente nota. Inoltre appartiene all'enciclopedia della cultura popolare in quanto esotica location di riprese cinematografiche o elegante quinta scenica di romanzi, videogiochi e graphic novels (A. Christie, Appointment with Death, 1938; F. Hergé, The Red Sea Sharks, 1958; Film: Indiana Jones and the Last Crusade, 1989; Videogame: King's quest V, 1990; Film: Transformers – Revenge of the Fallen, 2009.).

C'è inoltre un altro aspetto da non sottovalutare: la geomorfologia di Petra incarna la perfetta metafora di un rito di passaggio. Il viaggio simbolico nel cuore di questa città prevede una cavalcata a dorso di cavallo o cammello in una lingua di terra battuta chiusa tra pareti ripide. Mediatori di questo rituale sono i beduini che popolano l'entrata e offrono i loro servigi con discreta perseveranza. È un percorso obbligato, ma anche una citazione che non può sfuggire agli amanti del cinema d'avventura, nonché vittime dell'archeomania alla Indiana Jones, poiché è tra queste pieghe di roccia che il celebre archeologo sollevò nuvole di sabbia in un memorabile galoppo.


La via segue le sinuosità labirintiche di un uadi asciutto (un letto di torrente, quasi un canyon) e procedendo nella gola serpeggiante si affonda sempre più in una fresca oscurità indotta dalle pareti incombenti che quasi si chiudono sopra la testa. Questa scura fase intermedia forgia i sentimenti per l'epifania. All'orizzonte s'intravede una lama di luce polverosa che spacca la sovrapposizione prospettica delle quinte calcaree con la trasognata grazia di un baluginio di plancton: muffa biancastra nel cuore dell'oceano, ovatta di luce nella notte rocciosa.

Progressivamente si apre il crepaccio e al viaggiatore si svela una veduta parziale che mozza il fiato: nell'abbagliante luce del mattino s'innalza la visione del Khazneal-Firaun, il cosiddetto Tesoro del Faraone. I raggi del sole inondano la sua superficie modellata nella roccia che si anima, al loro tocco, di luci, ombre e colori. Ci si sente nel calderone della storia, in una dimensione senza tempo, un'atmosfera potente e quasi sovrannaturale è tutt'intorno. E questo è solo l'inizio.

Questa premessa non è l'unico motivo che renda una mostra su Petra una sfida impegnativa.

La relativa dimestichezza che il pubblico medio ha con il sito favorisce lo sbocciare di grandi aspettative, il che rappresenta già di per sé una forte componente di rischio per i curatori. Un altro banco di prova, poi, strettamente connesso al precedente, è quello della mediazione culturale: gli allestitori devono confrontarsi anche con la responsabilità di trasmettere il sapere, quel sapere, ad un livello adeguato. Queste criticità ho provato ad analizzare nel corso di una serie di interviste rivolte ai visitatori del museo di antichità.

Pochi dei miei interlocutori hanno un'esperienza diretta del luogo, ma molti si sono informati attraverso la letteratura, i documentari o i racconti di conoscenti. “Io non potevo andare in Giordania, allora mi sono detta 'almeno vado all'esposizione!'” mi rivela una signora.

Per poter ricostruire l'ambiente e l'atmosfera della vera Petra i curatori hanno messo in atto un paio di trucchi. In primo luogo è stato riprodotto il contorto Siq: a collegamento tra la prima e la seconda sala vi è un percorso serpeggiante chiuso entro pareti di cartone color sabbia, alte e continue, oblique e incombenti che simulano appunto quella gola d'accesso (“calamita lo sguardo!” dice una; “geniale!”, “bello!” gli altri; “la gola era fatta in modo fantastico!” aggiunge una terza.) In altrettanti parallelepipedi che imitano la roccia sbozzata, sono incastonate le vetrine e nonostante il rischio di inciampo ed una certa instabilità l'insieme fa una buona impressione.

Un tocco d'artista è poi la speciale... fragranza che aleggia nell'aria. Una visitatrice si lamenta: “C'è uno strano odore qui!” e scopre poco dopo che un mix di sabbia del deserto e letame di cammello è stato effettivamente distribuito nelle intercapedini a conferire una maggiore verosimiglianza, per restituire al visitatore un'atmosfera più verace da caravanserraglio.

Le isole tecniche e tecnologiche sono state molto apprezzate: l'allestimento del pavimento, la ricostruzione 3D (o forse addirittura 4D) in cui una simulazione, con potenza demiurgica digitale, rimette in piedi palazzi dalle rovine (“dà un ordine alla fantasia” osserva uno; “io ho sempre difficoltà con queste pietre... Ma quando le si vede tirate su in un edificio, diventa tutto più chiaro!” chiosa un'altra); il modello del sistema d'irrigazione (“si è capito molto della tecnica dell'acqua!”): le stazioni con video-documentari (“aiutano a farsi un'idea più precisa.”)

La maggior parte dei visitatori è positivamente impressionata, i reperti esposti sono molto belli e questo contribuisce a soddisfare fantasia ed aspettative.

C'è qualcosa però che stride in questo idillio. Il primo strappo è visibile quando parlo con i conoscitori: la loro critica non concorda con l'entusiasmo dei profani.

La seconda incongruenza mi ha aiutato a vederla una vignetta del New Yorker, scoperta per caso.
@ New Yorker
In questa gag una signora adorabilmente spontanea ammette la difficoltà di articolare la sua ammirazione per la maestà del Khazne al-Firaun che ho citato più sopra: “E poi abbiamo visto questo enorme tempio scavato nella roccia e non ricordo come si chiamasse, ma ricordo che pensai 'WOW'!”

È proprio questa, a ben guardare, l'impressione che la maggior parte dei visitatori mi trasmette: il loro entusiasmo pare essere così traboccante da risultare indicibile. E questo è il motivo per cui all'inizio di questo contributo ho chiamato la mostra di Petra 'catalizzatore': proprio come quella specie chimica 'provoca una reazione senza venirne conseguentemente alterato'. Le persone sentono di trovarsi di fronte a qualcosa di grandioso, ma non sono in grado di tradurlo in parole, cioè di classificarlo in un sistema logico, di afferrarlo.

Questo ricorda una pseudo sindrome di Stendhal, in cui il bombardamento di stimoli culturali porta ad una [comoda] afasia. Così come di fronte ad un'opera d'arte si prova a volte il confortevole diritto, di non doverla comprendere a tutti i costi, allo stesso modo, in museo così come nella vita, si abbandona spesso la facoltà di giudizio, non appena lo scenario si fa più impegnativo. Questa pigrizia non è frutto di una Colpa, bensì di mancanza di Esercizio.

Allora proviamo a fare un po' di esercizio critico, seguendo le tracce di alcuni miei intervistati.

“È bello ma bisogna leggere molto!”; “la prima sala è ingarbugliata: dovevo far continuamente la spola qua e là!”; “ah, io ho perso la strada! Non mi raccapezzavo più!”; “sì, la successione delle vetrine non è chiara, la farei in un altro modo...” Ammettono alcuni.

Altri hanno subito obiettato: “... ma chi vuole imparare, deve anche leggere, no?”; “può anche essere appassionante doversi cercare le cose da sé: mi sono semplicemente data il tempo di osservare tutto con calma.”; “... i locali del museo di antichità non sono particolarmente adatti alla ricezione dei visitatori, non è un museo facile!”

Un balzo in avanti nella valutazione lo fa una viaggiatrice che a Petra c'è stata: “la mostra è puramente estetica, elaborata in modo appena critico.” Dice. È vero. Più delle difficoltà logistiche nell'allestimento degli spazi, urta una penuria di verosimiglianza e forse di empatia. Troppo resta sottinteso o suggerito tra le righe: le sequenze cinematografiche che animano il pavimento della seconda sala non sono identificate da una legenda. L'animazione digitale è interessante come opera d'arte a sé ma il suo significato rimane oscuro, manca una spiegazione esauriente, un collegamento alla sala. Le sue tele di proiezione risultano isolate così come le figure dei beduini, stampate su pannelli a grandezza naturale distribuiti qua e là, il cui effetto è puramente scenografico. Quei personaggi non hanno nome, la loro biografia è svuotata. Invece sarebbe interessante sapere come vivano questi moderni abitanti di Petra che, per ragioni di opportunità e conservazione del sito, sono stati trasferiti, nel 1984, in un insediamento dotato di tutti i comfort. Uno spaccato della loro riqualificazione professionale in qualità di aiutanti di scavo (gli archeologi non hanno infatti ancora finito di portare in luce, rimettere in piedi e tutelare i resti), venditori di souvenirs, conduttori di asini, proprietari di bazar si ricava nella monografia di A. Voegelin, Beduinen von Petra (2012), in cui mi sono casualmente imbattuta nello shop del museo. Si ha l'impressione che al visitatore sia richiesto di approfondire da sé, di ricercare autonomamente, dacché manca un filo rosso di connessione ermeneutica che lo guidi lungo binari scientifici alla scoperta e alla conoscenza.

I reperti, pochi, sono di valore, ma distanti, si prova come uno straniamento. I curatori si sono persi in dettagli arguti (il magnifico percorso per bambini, l'impertinente puzzo del deserto), e hanno trascurato lo sguardo d'insieme, commettendo alcune grossolane sviste. In particolare, due aspetti distintivi di Petra sono stati tralasciati: i giochi di colore che si rincorrono al tocco del sole o le sue enormi dimensioni (ci vogliono almeno tre giorni di camminata a passo sostenuto per visitarla tutta!)

Un ancoraggio al contesto, insomma, manca e le domande su come vivessero i Nabatei, come venisse utilizzato il tutto (gli edifici, il sistema d'ingegneria idraulica), quale sia il concreto stato della ricerca, rimangono sostanzialmente aperte.

Tra le cause di queste sviste c'è forse il voluto abbinamento del sito con la storia della sua scoperta e, soprattutto, con l'avventurosa figura del suo scopritore, Johann Ludwig Burckhardt, alias Scheich Ibrahim. La corposa presentazione di materiale ascrivibile alla sua biografia, nella prima sala, allontana un po' dal fulcro tematico rappresentato dalla città. Avrebbe forse giovato svincolare da Petra la commemorazione dell'esploratore ed orientalista basilese e dei suoi affascinanti viaggi. L'intento, del tutto lecito, di offrire una mostra che attraverso la figura di questo illustre antenato, celebri anche l'identità basilese, avrebbe richiesto un contesto più appropriato. Penso per esempio al museo per la cultura abitativa, sito nel palazzotto di Kirschgarten, che tra il 1775 ed il 1780 fu residenza privata nonché centro d'affari proprio della famiglia Burckhardt, che commerciava in seta. Qui la mostra “il sogno di Scheich Ibrahim” si permette l'impossibile: riscrivere la storia partendo da un semplice SE. Johann Ludwig Burckhardt crebbe qui ma non riuscì a tornarvi perché morì al Cairo a 32 anni. Che sarebbe stato se invece fosse riuscito a riportare a casa i ricordi dei suoi viaggi in Egitto, Siria, Nubia? Una risposta prova a darla l'esposizione di tessuti, accessori e di una raffinata collezione di vesti vicino-orientali, la cui esuberanza di colori vivaci e composizioni esotiche contrasta con lo stile impero dell'architettura neoclassica e l'arredamento austero delle sale. Questa mostra ha un pregevole valore etnologico, è allestita con un tocco di elegante sontuosità e si arricchisce di citazioni argute dalla corrispondenza del giovane Burckhardt, che nell'intento di conformarsi ad usi e costumi del vicino oriente prese anche un nome esotico, Sceicco Ibrahim, appunto.

Un altro confronto illuminante riguarda l'esposizione sull'Amazzonia al Museo delle Culture di Basilea. Del suo coraggioso titolo “E adesso cosa?” (“Was jetzt” recita l'originale tedesco) avrebbe avuto bisogno anche Petra. Molti aspetti comuni sono in gioco nelle due mostre, al confine tra una condotta neo-colonialista ed il riconoscimento di un valore, in bilico tra una deriva paternalista ed un dialogo tra pari. La sfida del museo delle culture (insieme ad altre tre istituzioni etnologiche in tutta Europa) è stata quella di costruire ponti. Nel 2009 una delegazione di rappresentanti delle popolazioni indigene del Sudamerica è stata invitata nel Vecchio Mondo per studiare gli oggetti della tradizione india e ricostruirne la storia.

“Nessuno di noi ha più memoria di queste opere d'arte, possiamo averne una copia da custodire?” chiede un giovane delle tribù dell'Amazzonia in un video che racconta di quell'incredibile lavoro di ricostruzione. Egli chiarisce che negli anni della grandi spedizioni etnografiche, in particolare ad opera del ricercatore svizzero Franz Caspar, che si recò in Brasile tra in 1948 ed il 1955, i suoi progenitori rimasero sostanzialmente estranei alle finalità di quegli studi. “Non ne capirono nulla, ma ora è tutto diverso, ora siamo consapevoli.”

Ecco cos'è, a mio avviso, la responsabilità, che ho citato all'inizio. Una necessità di condividere il sapere, un reciproco aiuto a ricostruire, per colmare le lacune nella percezione delle rispettive culture. Queste premesse contribuirebbero a formare un'esposizione che davvero forgia un'identità 'umana' in senso più ampio, che collega passato e presente, est e ovest, nord e sud (da qualsiasi punto li si guardi) ed insegna ad entrambi gli emisferi a comprendere, proteggere e promuovere il loro patrimonio culturale. Affinché, a differenza della vignetta citata, si pronuncino “WOW” che nascono dalla consapevolezza.

1 commento:

  1. Ho provato molto interesse per l’analisi che hai fatto, dove si capisce che alle spalle ci sta una grande documentazione da parte tua per poter essere all’altezza della conoscenza della materia e già questo ti fa onore. Sempre grandi dettagli che mettono voglia di una visita a Petra. Complimenti. LuAip

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