giovedì 2 agosto 2012

Müstair e la dolce ferocia della sfida montana

@ Debora Cilli, Stelvio 2012
A chi, per primo, sia venuta l'idea dell'Engadina, non saprei dirlo. Forse a Martin che, nel retro del suo atelier, ingombro di rotoli di pelle e stoffa, cataste di libri rilegati e fusti di fogli dalla costola spoglia, messi in pressa, vagheggiava di una tenda speciale, in cotone: la Spatz-Zelt (fresca anche sotto il sole cocente!). O forse a Stefan, che arrivava tardi alle nostre cene portando in casa, incollate al maglione, lingue di freddo delle serate invernali e, mentre attaccava con foga i resti del menù, ci raccontava di falò e nottate in sacco a pelo nei boschi: occhi fissi al cielo trapunto di stelle.
È da tempo che contemplo l'idea di una vacanza sulle montagne svizzere ma se si è realizzata solo quest'anno, dopo dieci di vita sul suolo elvetico, un motivo c'è. O forse più di uno. In primo luogo ho sempre amato il mare, sebbene sia nata a Torino, a partire dai 3 anni, abbia goduto di una camera con vista sulle Alpi e ancora oggi faccia fatica ad adattarmi ad una geografia cittadina che non presenti, all'orizzonte, la chiostra maestosa di montagne inondate di sole.
D'estate: mare. “Il sole che scalda le ossa aiuta ad affrontare meglio i rigori dell'inverno!” E via di seguito. Il mare non è granché esigente, estremizzando basta buttare in valigia costume, asciugamano e crema solare, mentre una tenda in quota suona impegnativa: si tratta di portarsi dietro la casa... Poi a me in genere piace conoscere tutto in anticipo, per essere 'preparata', per potermi 'organizzare', per essere pronta ad ogni evenienza, in una parola: operativa! E mentre mi lambiccavo in tipologie situazionali a diverse altitudini, con mutevoli premesse atmosferiche, nonché condizioni umorali variabili, c'era chi, con pacata concretezza svizzera, raggiungeva Zurigo per procurarsi la Spazt – lo scorso gennaio, il suo fondatore avrebbe compiuto 100 anni! Hans Behrmann che nel 1931, quando di anni ne aveva 19, cucì la sua prima tenda scout. E ancora oggi, a 77 anni dalla fondazione dell'azienda, le tele in cotone sono rigorosamente cucite a mano e hanno pesanti zip che scorrono con un riconoscibile sferragliare del cursore sui denti metallici; ma questo l'avrei scoperto solo dopo.
Mentre elencavo vagamente liste ciclopiche di utensili e suppellettili, alternando genialate tecnologiche a disarmanti passe-partout arcaici, Martin, nel suo modo casuale e dinoccolato, senza machismo imponente, ma con fermezza aggraziata e silenziosa, metteva insieme quanto necessario più qualche comodità extra, poi mi tirava gentilmente per le falde delle ali, ehm della giacca, per farmi di volta in volta scendere a terra e prendere coscienza dei suoi (nostri) progressi. Io annuivo, affabile ma distratta da voli pindarici di domande che terrorizzavano la mia confidenza di campeggiatrice, ma a cui non osavo dare sfogo (quanto lontana sarà la toilette dalla piazzola? Ci sarà l'acqua calda? Farà tanto freddo la notte? Avremo un tavolino e delle sedie per mangiare?)
Così è capitato che, quasi senza accorgermene, ho riempito anch'io borse e scatoloni seguendo i pensieri incoerenti che, in fuga verso un filo logico, ora m'ispiravano azioni di buon senso, ora si perdevano in fantasticherie inutili. La mia tarantella in bilico tra organizzazione e caos ha infine prodotto una dignitosa quantità di bagagli e provviste, queste ultime soprattutto, ché per me la consolazione di un pasto degno di questo nome è imprescindibile e, in quanto tale, causa di indefesso e preventivo impegno culinario.
Così è successo che, sfidando le più elementari leggi della fisica e della gravità, siamo riusciti a stipare tutto nella macchina di Martin e, in una mezza mattina di fresco quasi autunnale, abbiamo lasciato il quartiere di St. Johann per imboccare l'autostrada, destinazione 400 Km circa a sud-est di Basel: val Müstair, poiché meraviglia della zona è un monastero con dipinti carolingi iscritti nel patrimonio Unesco.
E sono bastati due passi montani ed una nevicata improvvisa in quota per farci azzerare l'orologio ed entrare in un nuovo mondo. Certo, un'ascesa in cordata d'auto fino ai 2500 con relativa inversione di pendenza e calata sull'altro versante, poi l'illusione di un tratto in piano che anticipa la nuova scalata, sarebbero di per sé bastate a farci resettare il 'programma città' e riavviare il sistema secondo nuove variabili montane, ma la misura dello scarto dalla nostra quotidianità, da poco abbandonata, ce l'hanno, in realtà, fornita prima un cartello stradale e poi l'affabilità di un'anziana autoctona che ha incrociato il nostro cammino. Ad affascinarmi al primo colpo è stato, infatti, il saluto: “Allegra!”, stampato a caratteri cubitali sul segnale di località e, più tardi, scandito con l'enfasi adatta da un sorriso mezzo nascosto sotto l'ombrello.
“Allegra!”...?
Già perché nei Grigioni si parla il romancio, lingua neolatina affine al ladino e al friulano; in particolare la variante di Müstair è l'Engadino inferiore. C'è chi l'ha avvicinata al gruppo 'gallo-italico', a me, che non sono linguista, la definizione è piaciuta perché calza alle fantasticherie che quella cadenza irresistibile mi ha suscitato. Una parlata decifrabile ed allo stesso tempo ignota, è assimilabile ad un potpourri che neghi alla vista i suoi petali più esotici, che diffonda le note di oli essenziali inafferrabili. Se da un lato prende a prestito termini di derivazione latina, a volte rielaborandone una versione deliziosamente storpiata, dall'altro attinge ad un patrimonio non indoeuropeo, per noi del tutto intraducibile. Da lì quindi ad immaginarmi il successo che quella lingua buffa (mi perdonino i parlanti, lo scrivo con incondizionato affetto) avrebbe nei fumetti di Asterix, laddove al romanesco dei legionari fosse contrapposto un irresistibile grammelot montanaro dei bellicosi Celti, il passo è stato breve.
L'idioma adatto, insomma, ad una terra che è intrisa di movenze fiabesche, soprattutto appena dopo Zernez, una volta superati i confini del Parco Nazionale (il più antico d'Europa che proprio ieri, 01. agosto, festeggiava 98 anni!).
Piantare le tende su un declivio baciato dal sole, la vista circoscritta da un abbraccio di pineta, lo sfogo a valle costellato di fiori imperlati da un'aureola di api ronzanti, ha sancito l'inizio dell'avventura. E poco per volta anche le nuove attività quotidiane hanno finito per assumere una dimensione fantastica.
Perché certo solo in un mondo da fiaba possono realizzarsi, senza parere fuori posto e fuori tempo, gesti semplici e pure perduti, come l'allestimento di un falò.
'Fare il fuoco' è una delle esperienze più ancestrali e affascinanti che, alla pratica concreta della raccolta del legno, accosta l'arte della disposizione dei singoli elementi ed un pizzico di astuzia alpigiana laddove ripropone trucchi di epoche povere di risorse.
Così ci siamo incamminati nel bosco e abbiamo scoperto che i fusti degli alberi erano appesantiti da ventagli secchi, appendici ormai inerti e sarebbe bastato raccogliere quanto di scarto la natura offriva. Abbiamo, via via, deposto sul letto d'erba mucchi di rametti e ramicelli, manciate di pigne cadute, piccoli ceppi; raccolto mazzi di lichene e legato tutto in fascine. L'entusiasmo del primo successo alla Robinson Crusoe è stato però offuscato dalla logistica del trasporto: gli spuntoni mi pizzicavano le braccia nude ed il fardello mi pesava al fianco. Poi Amélie, orgogliosa fochista del gruppo, ha disposto con cura entro l'anello di pietre, il lichene (che brucia a lungo e sostituisce degnamente la carta), una granagliata di pigne, poi il tepee di rametti, e ha dato inizio al rito, nutrendo successivamente il mostro rovente con generosi ciocchi che le lingue sanguigne digerivano con frigolii e scoppietti di piacere.
Solo in una parabola da tempi andati, utensili apparentemente arcaici acquistano vitale importanza e salvano dal cul-de-sac dell'impotenza: come il pelaverdure che quel nostalgico appassionato di vintage che è Martin si è portato orgogliosamente dietro e ha poi prestato ai vicini di tenda disperati, non prima di avermi lanciato un occhiolino d'intesa. Devo ammettere che i suoi entusiasmi per le eccellenze delle produzioni industriali europee li ho sempre guardati con affettuosa ironia e lo stesso sorriso storto avevo di fronte ai suoi excursus, in cucina a Basel, sull'inventore, Alfred Neweczezal, che ideò il pelaverdure Rex nel 1947. Ma mi sono dovuta ricredere: quando un'idea è geniale e applicabile nella pratica quotidiana, bisogna riconoscerle il merito. Per quanto molti abbiamo provato ad imitarlo – chiunque abbia un pelaverdure con la lama che struscia a vuoto, lo sa; il Rex è l'unico che davvero funzioni per pelare frutta e verdura, un occhiello laterale è persino studiato per rimuovere le gemme delle patate; ma anche grattare scaglie di cioccolato o formaggio, da 65 anni continua ad essere prodotto in Svizzera ed è diventato un classico del design, tanto che campeggia – gioco di parole non voluto! – in musei e pubblicazioni specialistiche. A me queste storie affascinano assai, un po' come l'invenzione della ruota, colpi di genio negletti, che diamo per scontati perché sono ormai entrati a far parte della nostra vita comune e sono alla portata di tutti ma ci facilitano, in campi e misure diverse, l'esistenza.
Da ragazzina amavo i voli in alta quota, si può dire che toccassi terra raramente. Mi piaceva il distacco dal mondo: lo osservavo da una distanza di sicurezza che gli impedisse di scalfire il mio empireo. Tutto da quegli spazi siderali aveva un'armonica bellezza, direi addirittura perfezione, che una messa a fuoco più ravvicinata, una planata decisa, non avrebbero potuto che compromettere. Se poi qualcosa stonava, se un'immagine, il vociare, la cacofonia del reale scalfivano la mia polla di pace, davo un colpo d'ala e tornavo in quota, lassù dove tutto era una sintesi sommaria eppure compiuta, una stilizzazione depurata di dettagli.
Da un po' di tempo a questa parte, invece, mi diletto in brevi picchiate verso il Reale, cabro all'ultimo e procedo in volo livellato, raso mondo. A volte oso tuffarmi in mare e mi lascio avvolgere dal suo utero fresco, per poi proiettare fuori la mia matassa di piume zuppe e tornare in alto. A volte tocco addirittura terra; in punta di zampa, saltello qua e là, come sui carboni ardenti e picchietto con il becco curioso gli oggetti che mi capitano a tiro. Ho imparato ad apprezzare enormemente le piccole cose apparentemente insignificanti (sì, proprio come il pelaverdure, la caraffa che mi porta un litro d'acqua in tavola, la coperta pic-nic) e che invece rappresentano microscopici lussi d'utilità pratica. Preziose piccolezze che, dai voli in quota, passavano del tutto inosservate: briciole da formicaio. Ora invece costituiscono solide mattonelle su cui posso stendere per bene le zampe palmate e, udite udite, azzardare una passeggiata.
E dunque all'esplorazione della Val Müstair è ora di tornare. Come dicevo è così successo che abbiamo progressivamente azzerato le nostre competenze da civilizzazione (be', pelaverdure escluso) e abbiamo provato a vestire i panni grezzi ma gioiosamente inventivi e solidi di creature primitive, in un'atmosfera di comunione il più possibile simbiotica con la natura. Ogni giorno la nuova dimensione acquistava maggiore confidenza e il nostro essere naturale si stiracchiava compiaciuto della sua inusuale libertà espressiva.
Abbiamo scoperto cespugli folti che vestivano collane di perle porpora e ne abbiamo sgranato manciate di lamponi, poi è stata la volta della rugiada dei ribes, color rubino, che contendevano alle gocce di pioggia lo specchio dell'arcobaleno. Ci siamo donati a vicenda praline di fragole selvatiche: un'intensa essenza di gusto, nascosta sotto cappelli di foglie trilobate.
Mentre percorrevamo sentieri che si snodavano tra radure verde brillante, fitte di felci, o rive di torrente dalle spume cristalline e sonore, registravamo con ammirata sorpresa, le corolle di campanule, i tappeti di muschio, i rami contorti e centenari, lo sfarfallio frenetico di piccole ali sottili come tulle che in nuvole turchesi, rosso-nere, bianche o castagna addensavano danze intorno ai nostri piedi e a volte si posavano sulle nostre dita tese, sulle falde del cappello, sulle fasce dello zaino.
Con i nostri frutti boschivi abbiamo arricchito colazioni e dessert e dal resto, a celebrazione dell'ultimo giorno, Martin avrebbe ricavato un vasetto di marmellata. Alle farfalle Amélie ha offerto un servizio taxi, portandosele in palmo di mano per lunghi tragitti, ergendo con le dita libere una barriera frangivento molto apprezzata dai lepidotteri. Della catalogazione floreale mi sono invece occupata io, collezionando esemplari unici dei diversi fiori d'alpeggio; il trofeo della stella alpina, però, mi sono limitata ad imprimerlo sulla pellicola digitale della mia fotocamera.
Ci sarebbero da citare ancora i rondinini a scuola di volo che, tondi e soffici, cinguettavano i loro dubbi dal trave più alto; il millepiedi salvato dal deserto della pietraia e deposto tra i fili d'erba o le marmotte fischianti l'allarme, mentre una loro compagna allungava la morbida pelliccia bruna al sole.
Certo, questo quadro, apparentemente bucolico, non deve trarre in inganno. Paradiso senza tempo, sì, ma non c'è poesia senza lusinga di decifrazione, sfida all'impegno, invito al coinvolgimento. È arrivato quindi anche per noi il momento in cui ci è stato chiesto di mettere alla prova i nostri limiti, testare le paure per fugarle o domarle. È un passaggio obbligato che non si cerca e non si prepara a tavolino, accade, ogniqualvolta la natura, pardon: la Natura, sia chiamata in causa. E noi non solo l'abbiamo evocata ma siamo, per così dire, andati direttamente a casa sua.
L'episodio più eclatante che mi piace condividere si riassume in una parola sola: Stelvio. Il versante dei Grigioni è messo in comunicazione con l'alta Valtellina dal passo dell'Umbrail. Dopo una gimcana di avvicinamento in bus abbiamo iniziato l'ascesa della punta del Cotschen a 3.000 m circa s.l.m. La maggior parte delle guide tecniche la descrivono come una 'piacevole passeggiata alpina', quindi l'abbiamo affrontata con leggerezza, io armata di macchina fotografica e cartoccio per l'erbario, Amélie con un cono stracciatella (preventivo incameramento di energia), Martin perso a leggere le tavole esplicative che rievocavano la guerra del 1915-'18 quando il fronte dello Stelvio rappresentò un aspro campo di battaglia italo-austriaco.
Il sentiero si snoda piacevolmente tra mirti, cardi, campanule, margherite, nontiscordardimé, rododendri e, per un breve tratto, anche genziane. Arbusti sempreverdi mimetizzano i resti delle trincee ed alloggiamenti della Grande Guerra ed i raggi di sole fanno brillare le corolle di piccoli fiori gialli scapigliati.
Ho imparato qui che ogni svolta, che sembra l'ultima, nasconde in realtà un'ulteriore lingua di sentiero che cambia spesso forma, che si dipana più ripido, più aspro. Al prato morbido come un vello di pecora arricciato, è succeduta, infatti, una pietraia lunare, il cui angolo di pendenza si è drasticamente inclinato verso valle. Un profilo croccante di rocce taglia la nostra visuale fino all'orizzonte solcato da vele di nuvole gonfie. C'è da trattenere il fiato ad ogni scroscio di sassi che i nostri passi fanno sgranare giù. Il cammino procede con guardingo equilibrismo sulla cicatrice di sentiero ghiaioso appena abbozzata sulla parete. Eppure laddove la ferita aperta del passaggio incontra il turchese, m'illudo sia la fine della prova, che si sveli il premio della discesa, che tornino i ciuffi verdi e con loro, i mazzi fioriti. La vista che si apre a ventaglio alla nostra destra e, quando abbiamo il coraggio di voltarci, alle nostre spalle, offre un allettamento fedifrago che annulla la breve consolazione in un rigurgito di nausea da vertigine.
Martin mi fa un cenno che invita a precederli di qualche passo per esplorare quel che nasconda la prossima curva e decidere se sia il caso di proseguire. Avanzo quasi aderendo alla parete alla mia sinistra, per quanto lo scricchiolio di pietre sotto le mie mani aperte ed il fianco mi dia una spiacevole impressione di sabbie mobili. Dopo l'ennesimo arco del sentiero che mi fa, ancora una volta, sperare in un sospiro di sollievo, scorgo un tratturo contorto che s'inerpica a strapiombo, senza più compromessi ed illusioni, e poi scompare contro una dentatura da squalo di pareti verticali che sono, questa volta sì, la quinta della cima.
Mi giro ad occhi chiusi, poi inspiro a fondo e, mentre guardo Amélie e Martin in attesa, mi passo inequivocabilmente il taglio della mano destra sotto il collo: finito. Si torna indietro.
Non lo sapevo e non l'avrei detto, ma la parte difficile sarebbe incominciata allora.
Il sole a picco sulle creste incombenti, il crepitio pietroso e la debolezza dei muscoli nelle gambe ora incerte contribuiscono al fiorire di fantasie lugubri. Vertiginose altezze e creste di tsunami popolano da tempo i miei incubi ricorrenti, io ci tremo in cima, in equilibrio precario, mentre il mondo di sotto oscilla e ondeggia. Ora che i laghi oscuri dell'inconscio hanno rotto le dighe e sono liberi di travolgere la valle della coscienza e tra reale e fantastico, tra luce e notte, non ci sono più confini, sento che le regole razionali, che tengono le mie suole carrarmato saldamente a terra, sono in pericolo di sovvertimento, alla mercé delle ansie più profonde e tetre.
Mentre gli altri avanzavano lentamente verso valle, io mi sono accasciata dov'ero cercando di dominare la marea cieca che rischiava di annegare ogni residuo buon senso. Ricacciare indietro le ombre dell'incubo richiedeva uno sforzo estenuante a cui si aggiungeva la fatica di decifrare la superficie che avevo sotto i piedi, perché nel capogiro non distinguevo più quali ciottoli scivolassero a valle, quali degradassero dal monte e quali offrissero un piano di calpestio relativamente orizzontale. Mi danzavano davanti agli occhi chini, come leggere ondulne di mare appena mosso, ad accrescere la mia insicurezza e la mia risoluzione illogica all'immobilità.
La prima decisione è stata quella di restituirmi la sobrietà a schiaffi, la seconda di aggrapparmi ad una cantilena ricorrente, alla scansione puntuale delle sue sillabe, per non pensare a null'altro.
Ho così cominciato a intonare 'bi-e-à, bi-e: ba-bé, bi-e-i: babebì, bi-e-ò: babebibò, bi-e-ù: bu – babebibòbu.' che si faceva più acuta nei momenti in cui lo sghignazzo della paura aveva la meglio. È stato un ritorno infinito, con progressi millimetrici e frequenti soste, sguardi lanciati svelti davanti a me per assicurarmi che gli altri stessero bene (loro, per la verità e per fortuna, procedevano serenamente, Amélie anzi mi urlava a tratti di non cantare “ché ti distrai!”) e occhiate furtive che, fuori dal mio controllo, guizzavano, con un brivido, a valle.
Superato il pericolo, la paura mi si è staccata di dosso come un mantello pesante di fango seccato. L'ho abbandonata là, sul ciglio pietroso, che rincontrerò, forse, nei miei sogni.
Quella notte lo spettacolo è stato all'altezza degli scenari che, nel delirio dell'alta quota, mi promettevo per farmi coraggio. La scodella di cielo, incorniciata dalle cime dei pini, aveva acceso le sue stelle più fulgide e ammiccava con luccichii che eran sorrisi.
Scivolare sotto il piumone caldo e godere il contrasto con il fresco che, dalle pareti di tela, lambiva il viso, mi ha strappato un sospiro, anticipo di sonno.
La settimana è poi trascorsa: ogni giorno uno spicchio di cielo nuovo sulla testa e un sentiero ignoto sotto i piedi. Ci hanno sorpresi acquazzoni biblici, che abbiamo sfidato e a volte vinto, altre hanno vinto loro e ci siamo ridotti sotto la piramide della tenda a guardarci le V dei piedi stesi fuori, in attesa. Abbiamo cotto prelibatezze su un fornello che avrebbe fatto invidia al colibrì-giradischi dei Flintstones. Abbiamo adempiuto piccoli riti tutti nuovi e che, così, non rivivremo più: il pane ritirato caldo al mattino, nel cartoccio anni '50; la corriera con il suo barrito nasale da elefante braccato; i panini al cetriolo (fresco, con sale, olio ed erbette) che Amélie ha scoperto di amare; i picnic in pendenza, in mezzo ai fiori.
Sulla via del ritorno pensavo all'alternanza di accoglienza e rifiuto che la montagna ha suscitato in me, alla spietatezza leale con cui si è adoperata a forgiarmi un po'. E già sento una piacevole dipendenza dalle sue sfide esigenti, perché la ricchezza della ricompensa non sta nella vista che ti si squaderna davanti sulla cima, bensì in tutto quello che hai passato per arrivarci (e quando hai 'fallito' è lo stesso). E per quanto sia duro e costi tenacia e volontà di ferro, hai una dannata voglia di rifarlo, perché quella lotta contro se stessi non è altro che il senso della vita stessa.
Ho imparato anche un'altra cosa: che mia figlia, forse, preferisce il mare.
“Mamma? Sai, io non sono tanto per la natura... Sono più per... casa.”

Ps.: Ieri, primo agosto, oltre alla festa nazionale svizzera, ho celebrato un fatto privatissimo: questo blog, a cavallo tra la notte e l'alba, ha attraversato il giro di boa dell'anno. Grazie ancora a chi lo sfoglia, lo legge, lascia un segno del suo passaggio. Ne sono felice, anche perché, per coincidenza, proprio ai festeggiamenti basilesi era dedicato il primissimo articolo. Zum Wohl!

2 commenti:

  1. Questa avventura sullo Stelvio l'ho sentita raccontare dai protagonisti personalmente e già in quel momento ho provato un senso di angoscia, ora leggere la dovizia di particolari mi fa venire i brividi e di una cosa sono sicura: non mi arrampicherò mai su un percorso così. Quindi complimenti a chi è stato così temerario e soprattutto a che ha saouto mettere per iscritto queste emozioni. Tutto il resto è pura poesia. Auguri per il 1° compleanno che sia solo l'inizio di tanti anni di soddisfazioni. LuAip1951.

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